L’Uomo che sapeva troppo: quando Alfred Hitchcock cambiò il thriller

65 anni fa usciva il capolavoro di Hitchcock, L' uomo che sapeva troppo: una delle spy stories più innovative ed iconiche del cinema, capace di portare ad un livello inedito il concetto di suspense.

James Stewart e Doris Day in una scena del film L'uomo che saperva troppo (1956)
James Stewart e Doris Day in una scena del film L'uomo che saperva troppo (1956)

L'Uomo che sapeva troppo era già stato portato da Alfred Hitchcock al cinema nel 1934, nel pieno di quella fase britannica della sua carriera che si rivelò per lui tanto preziosa dal punto di vista personale ed artistico, quanto inizialmente magra di soddisfazioni per ciò che riguardava il giudizio della critica e del pubblico. Tuttavia, proprio grazie a questo film, il geniale regista conobbe finalmente la consacrazione, cominciò quella scalata verso il firmamento cinematografico, che lo vide nel decennio successivo, sbarcare in America, per poi diventare quell'autore di culto che oggi tutti celebriamo. Chiaro quindi perché fosse affezionato a questo film in particolare, ma la volontà di crearne una nuova trasposizione fu sicuramente più connessa alle potenzialità che essa offriva dal punto di vista stilistico e semiotico, solo parzialmente esplorate nelle versione degli anni '30. Il risultato finale è noto: l'Uomo che sapeva troppo è ancora oggi indicato non solo come uno dei migliori e più innovativi film mai concepiti dal maestro londinese, ma in generale come uno dei thriller più rivoluzionari di tutti i tempi, una pietra miliare della settima arte.

Un uomo normale, perso dentro un incubo

James Stewart e Doris Day in una celebre scena del film L'uomo che saperva troppo ( 1956 )
James Stewart e Doris Day in una celebre scena del film L'uomo che saperva troppo ( 1956 )

La trama vedeva la tranquilla famiglia dei McKenna, formata da Ben (James Stewart), Jo (Doris Day) e ii figlioletto Hank (Christopher Olsen) intenta a godersi la propria vacanza in un Marocco ancora stretto dal giogo coloniale francese. L'incontro con il misterioso e inquietante Luis Bernard (Daniel Gélin) sarà solo il primo passo dentro un intrigo fatto di misteri, tradimenti, dove a poco a poco i due coniugi, per salvare il figlio successivamente rapito, dovranno improvvisarsi detective, rimanendo coinvolti in un complotto ordito per assassinare a Londra un importante Capo di Stato. Film dalla regia semplicemente sensazionale (e criminalmente ignorata dall'Academy, come accadde sempre al regista inglese), L'uomo che sapeva troppo è un gigantesco, inquietante e angosciante labirinto, in cui spesso lo spettatore ha ancora oggi l'impressione di trovarsi prigioniero di un'illusione, di un incubo appunto. Da tale iter, le cui spire avvolgono completamente il protagonista ed i suoi cari, questi non può uscirne che compiendo un'azione apparentemente paradossale, ma in realtà logicamente l'unica possibile: addentrarvisi ancora più in profondità, cercare la verità e con essa logicamente anche la salvezza. Non un caso che McKenna abbia il volto elegante e umanissimo di James Stewart, forse l'attore che più di tutti, nella storia di Hollywood, fu chiamato ad essere l'uomo comune, che si trattasse di un western, di un giallo o di una commedia. E come in Intrigo internazionale, ne L'altro uomo o Frenzy, tale elemento è connesso in generale a una apparente verosimiglianza e una ricerca del credibile in ogni componente, è solo uno dei tanti espedienti mediante il quale Hitchcock ottenne di catturare in toto l'attenzione dello spettatore e creare empatia con i personaggi.

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Tra spazio e tempo, visivo e sonoro

James Stewart e Christopher Olsen in una scena del film L'uomo che sapeva troppo (1956)
James Stewart e Christopher Olsen in una scena del film L'uomo che sapeva troppo (1956)

Ciò che però rende ancora oggi L'uomo che sapeva troppo un film unico ed inimitabile, è come Alfred Hitchcock sia riuscito ad omaggiare il genere, a crearne una sorta di anatomia, di monumento, un film che più che un thriller e basta era un ritratto del concetto di thriller. Eppure, nel farlo, egli si adoperò per decostruirne e sovvertirne quelli che erano i dettami dell'epoca. Sicuramente un primo elemento è dato dal mettere in scena lo stesso concetto di suspense e attesa nella prima sequenza, con l'orchestra che suona la stessa colonna sonora, il campo che via via si restringe in modo dinamico, andando ad inquadrare i due piatti, posti al fianco del musicista, immobile, che dovrà suonarli. Sappiamo che li deve suonare, sappiamo che succederà, ma non sappiamo quando, solo che sarà presto. In quell'attesa, in quella conoscenza limitata che però non reca alcun beneficio, vi è lo stesso concetto di suspense, vi è la messa in scena di quell'onniscienza promessa e mai mantenuta nella realtà cinematografica. Un gioco? Uno sberleffo ironico al pubblico e al cinema in sé? Anche, ma soprattutto una rappresentazione di ciò che era il cinema per Hitchcock: vedere. Lo sguardo era tutto per lui, lo sguardo era la prima arma da lui utilizzata per catturare lo spettatore, a cui poi sarebbe inevitabilmente seguito il sentire. Oltre a questo, il film è connesso in modo palese e dichiarato al concetto di temporalità, un'arma nelle mani del regista con cui stregare e condannare all'angoscia lo spettatore fin da quella scena iniziale. Sa che verranno suonati quei piatti ma non quando, così come McKenna a la moglie sanno che verrà compiuto un attentato ma non quando precisamente. Il tempo è loro nemico, così come è nemico dello spettatore, è tiranno della sua mente e del suo equilibrio, lo logora ai fianchi, grazie ad una regia che nella celeberrima scena del concerto all'Albert Hall, ottiene il magico risultato di dilatarlo, di renderlo grazie all'elemento sonoro atteso (ancora il suono dei piatti) quasi insostenibile.

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Un film sul male universale e il conflitto

La celebre sequenza alla Albert Hall del film L'uomo che sapeva troppo ( 1956 )
La celebre sequenza alla Albert Hall del film L'uomo che sapeva troppo ( 1956 )

Film dal simbolismo visivo e sonoro di assoluta predominanza, L'uomo che sapeva troppo, a distanza di 65 anni, ha ancora un fascino e un'energia incredibili, questo anche grazie all'audacia e alla sfacciataggine con cui Hitchcock decise di rinnegare i cliché del genere, continuando quell'opera di rinnovamento formale e semiotica, che lo ha reso uno dei registi più influenti di sempre. Se pensiamo allo stile, alle tematiche care a registi come Michael Mann, Christopher Nolan o David Lynch, ci rendiamo conto che proprio l'uso del sonoro, il dominare di una regia fluida e multiforme, il simbolismo che mette il protagonista via via sempre più in una posizione di antitesi rispetto al mondo, hanno trovato tanti discepoli e hanno guidato tante carriere. All'epoca il film fu salutato in modo moderatamente entusiasta dalla critica, che in parte si disse perplessa dell'uso del Technicolor e VistaVision, senza cogliere il simbolismo cromatico, l'enorme aiuto che esso dette alla messa in scena geometrica, finalizzata a comunicarci il conflitto (soprattutto morale) che regnava. Bene e Male sono essenziali in questo film, la loro apparente semplicità di collocazione non deve ingannare sull'inquietante (e del resto sempre presente) certezza che anima il cinema del grande regista: le tenebre possono nascondersi ovunque, in mezzo a noi. Esse possono avere i modi apparentemente cordiali dei due luciferini coniugi Drayton, che molti all'epoca videro come una personificazione di quell'incubo comunista che fino a poco tempo prima era stato usato dall'ambizioso McCarthy per terrorizzare un intero paese e il cinema in particolar modo. Qualcosa che neppure la fantasia di Hitchcock avrebbe saputo partorire. Di certo, 65 anni fa, il mondo forse non si rese completamente conto del miracolo creativo a cui aveva assistito, di quanto questo film avrebbe cambiato per sempre il linguaggio cinematografico e il nostro rapporto con quella paura dell'ignoto che è da sempre linfa vitale della fantasia della settima arte.

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