Recensione Tutti i battiti del mio cuore (2005)

Finalmente un rifacimento con idee di reinventare un discorso, però non per scardinarlo e soppiantarlo cinicamente, bensì per rinforzarlo e addirittura per aumentarne il valore, se possibile.

Le parole che non si capiscono (più)

Il cinema di James Toback mette in scena la polifonia dei linguaggi, dei corpi, delle culture e, di conseguenza, dei comportamenti a cui siamo - nostro malgrado? - costretti, nonostante l'urgenza della contemporaneità ci stimoli ad una giustezza che il più delle volte non ci appartiene. Insomma, vogliamo fare i bravi, i più coerenti e i più moralmente accettabili possibile, ma finiamo sempre per esercitare su noi stessi e sugli altri una violenza psicofisica inevitabile. Razzismo, potere, prevaricazione da dietro l'angolo balzano sovente addosso. Jacques Audiard l'ha ben capito, e nonostante il suo remake del tobackiano Rapsodia per un killer differisca in molti punti dall'originale (in primis, nel contesto socio-epocale e culturale: là l'America della seconda metà degli anni Settanta, qui la Parigi di oggi), le sottrazioni e le aggiunte non hanno mai intenzioni distruttive, ma elaborano la fonte originale con spirito costruttivo.

Finalmente un rifacimento con idee di reinventare un discorso, però non per scardinarlo e soppiantarlo cinicamente, bensì per rinforzarlo e addirittura per aumentarne il valore, se possibile. Tutti i battiti del mio cuore racconta certo le stesse cose di Rapsodia per un killer: la follia di un uomo che nel caos quotidiano (ma soprattutto interiore) si squilibra fino a estreme conseguenze, non riuscendo più a trovare se stesso, se mai in fin dei conti si è trovato. Ma quello di Audiard non è lo stile semi-improvvisato di Toback, come avevamo già avuto modo di capire dal bel Sulle mie labbra. La sua macchina da presa sfoca gli eventi e le facce, e conserva un'inquietudine palpabile e claustrofobica. Thomas non capisce il mondo, ma non capisce più neanche i suoi desideri, le sue aspirazioni, le sue tensioni. E di fronte a parole letteralmente incomprensibili (quelle della ragazza cinese che ascolta e critica le sue prove al pianoforte, quelle del boss criminale russo), Thomas perde la bussola.

È proprio la parola, intesa come mezzo di comunicazione e di comprensione, che risulta muro invalicabile, in un mondo che non vede più coordinate. Oltre la razza, oltre il colore della pelle, tra uomo e uomo non passa più nemmeno la comprensione dialettica, anche nella stessa città, anche nello stesso sobborgo, anche nella stessa stanza. L'angoscia di Tutti i battiti del mio cuore è più strisciante rispetto a Rapsodia per un killer, dove il Jimmy di Harvey Keitel se ne andava in locali pubblici con il suo mangiacassette a spalla perennemente accesso, e a volume sparato; però non si fanno sconti a nessuno, e la chiusura, apparentemente più conciliata, non promette alcun orizzonte più solare: il fallimento era tanto di Jimmy quanto di Thomas (Romain Duris), avvolti in un sangue che pensano soltanto altrui, e che invece li investe come neanche quello a torrente fuori dall'ascensore di Shining.