Recensione Transamerica (2005)

Transamerica non è un film sul transessualismo e non è un film sull'omosessualità. E' la storia di due outsider che ambiscono ciò a cui tutti aspiriamo, coinvolti in un viaggio che li renderà completi e pronti a conquistarsi il proprio pezzo di felicità.

La verità nascosta

Bree/Stanley, un transessuale donna, elegante, colto, alquanto tradizionalista e dotato di una certa ironia, vive a Los Angeles cercando di mettere insieme i soldi necessari per l'operazione chirurgica che gli permetterà di cambiare sesso. Pochi giorni prima del grande momento, ottenute le necessarie autorizzazioni, riceve una telefonata inaspettata: il giovane Toby è finito nei guai e dal penitenziario crede bene di decidersi a rintracciare il suo vero padre.
Pur negando di conoscere Stanley, Bree è costretta dalle pressioni della sua psicoterapeuta a partire per New York, per conoscere quella parte così importante del suo passato che ancora la tiene legata alla sua identità sessuale corrente.
Durante il viaggio di ritorno, tra innumerevoli bugie da parte di entrambi, i due compieranno un importante percorso alla scoperta di sé stessi.

Transamerica non è un film sul transessualismo e non è un film sull'omosessualità (se mai qualcuno avesse della confusione in testa, sono due cose radicalmente diverse). Transamerica non è nemmeno, a voler vedere bene, un film sulla diversità genericamente intesa o sul riscatto sociale di due emarginati. La tensione che anima i due protagonisti è quasi interamente interna e il loro percorso più volto a sciogliere una sorta di dramma esistenziale, anche se pure nel confronto e nella contrapposizione, che a sanare conflitti sociali. Il momento in cui Bree si trova a combattere apertamente contro i pregiudizi della sua famiglia è uno dei pochi in cui si ritrovi quello spirito liberal militante, insieme trasgressivo e politicamente corretto, che ammorba tanto cinema dei giorni nostri (è forse il momento meno riuscito del film, il momento in cui più forte si avverte la non sincerità della "caricatura").

Toby e Bree sono semplicemente due outsider, ignorati dal resto del mondo, con cui il film riesce miracolosamente a farci entrare in simbiosi. Toby e Bree aspirano in realtà alle stesse cose ambite da tutti gli esseri umani: la famiglia, l'amore, la casa; la loro condizione disadattata, la loro diversità, è solo una forma inconsueta e "visibile" della nostra inadeguatezza, della nostra solitudine e della nostra rabbia. Due personaggi diversissimi che incarnano il malessere di stare al mondo (lei tradizionalista, retorica, controllata, lui sregolato, esibizionista, insicuro; entrambi chiusi in sé stessi per non essere feriti dal resto del mondo, a cui guardano con sospetto), danno vita a un conflitto generato dalle tante differenze (ma anche dalle similitudini) e dai compromessi a cui giungono.

Ma l'universalità del loro dramma non basta a fare di Toby e Bree due maschere, semplicemente due freaks impegnati nell'ennesimo viaggio on the road nel profondo dell'America. La sceneggiatura di Duncan Tucker rimane alla larga dal facile effetto, risparmiando le emozioni, spalmando il racconto su un tempo lento e familiare, sereno e rassicurante. Salvo riservarsi esplosioni di emotività inaudite in alcuni passaggi cruciali: come quando Toby decide di donare a Bree, l'unica persona con la quale è riuscito a instaurare un rapporto sincero (pur nell'inganno) l'unica risorsa che crede di avere a disposizione, il proprio corpo di giovane ragazzo di vita, o quando Bree trova in un gentile cowboy Navajo (anche qui un "diverso", un solitario, ma quanto umano e vero!) l'uomo capace di leggere direttamente dentro di lei, al di là del gender.

Gran parte del merito, bisogna riconoscerlo, va alla magnifica interpretazione di Felicity Huffman che compie un lavoro straordinario sul proprio personaggio, rendendolo incredibilmente complesso, vivo, problematico, credibile, in una parola sola - spesso abusata - "vero". E quando sfocia alla fine in quel pianto dirotto, teatrale, eccessivo, strozzato, liberatorio, è impossibile non venire colti da un moto di simpatia, compassione, partecipazione totale. Una sensazione che ci accompagnerà a lungo usciti dalla sala, una lezione di umanità e di coraggio come solo il gran cinema a volte sa impartire.