Recensione Hotel Meina (2007)

Purtroppo il film di Lizzani non va molto oltre il merito di affrontare una storia così losca, ma non si affranca mai da un eccessivo didascalismo e paga lo scotto di un casting alquanto deficitario.

L'eccidio rimosso

Attualmente l'Italia è l'inferno del cinema. Se facciamo finalmente nostra questa tragica e evidente consapevolezza si può anche guardare con indulgenza a Hotel Meina. Cinema civile che resuscita al cinema, dopo anni di produzioni televisive un'altro grande vecchio come Carlo Lizzani, che fa la stessa tenerezza del Monicelli di Le rose del deserto, nel suo doversi barcamenare in un film dalle non poco intricate vicende produttive. Tenerezza o no, non è obiettivamente a Lizzani (subentrato a Pasquale Squitieri) che vanno imputate le forti debolezze di un film storico dall'impianto televisivo e dalla recitazione sotto il livello di guardia, nonostante i curriculum teatrali di gran parte del cast. Lizzani è poi consapevole delle difficoltà strutturali, arrivando perfino a considerare un miracolo il semplice fatto di riuscire a realizzare un film su un soggetto come questo ai nostri giorni.

Partendo da un duro saggio requisitorio di Marco Nozza, il film racconta, attraverso espedienti narrativi e drammaturgici fin troppo scolastici, il massacro di sedici ebrei avvenuto sul Lago Maggiore il 22 settembre 1943. Dieci giorni di prigionia coercitiva per gli ebrei ospiti nell'Hotel Meina, chi lì per rifugio alla persecuzione chi per semplice vacanza.
Lo sguardo sulla storia è filtrato attraverso le memorie della giovane superstite Becky Behar (figlia del proprietario dell'Hotel) che rievoca un suo amore giovanile castrato dal brutale arrivo di un plotone delle SS, subito dopo la firma dell'armistizio. Motore delle vicende una donna tedesca, personaggio ambiguo e negativo nella scrittura di Nozza e trasformato da Lizzani in una antinazista sotto mentite spoglie, che fa di tutto per aiutare gli ebrei, finendo per scontarsi duramente con il capo del plotone nazista. Un escamotage narrativo per evidenziare l'esistenza di una Germania dissidente al nazismo, al solito rappresentato con eccessive venature macchiettistiche, come è proprio al nostro cinema.

Purtroppo il film di Lizzani non va molto oltre il merito di affrontare una storia così losca, ma non si affranca mai da un eccessivo didascalismo e paga lo scotto di un casting alquanto deficitario. Non mancano alcuni rilievi di interesse storico, come il ruolo diplomatico della Svizzera durante la guerra civile e la posizione della borghesia italiana post-fascista di fronte all'occupazione nazista, ma anche sotto questo aspetto alcune licenze appaiano davvero eccessive, specie quelle riguardo la collocazione temporale di alcuni movimenti di resistenza.