Recensione L'ora di punta (2007)

Un lavoro che, nelle intenzioni, tenta di agganciarsi a quella tradizione cinematografica d'impegno civile tipica degli anni '70 puntando il dito contro la corruzione che opera trasversalmente a tutti i livelli dell'imprenditoria.

Italia nostra

Per il suo terzo lungometraggio, il regista napoletano Vincenzo Marra sceglie di puntare il dito contro il corrotto sistema imprenditoriale italiano narrando la vicenda esemplare di Filippo Costa, ex finanziere che ha scelto di seguire la tradizione paterna per far carriera rapidamente, ma che presto decide di passare dall'altra parte della barricata. Grazie all'aiuto della matura Catherine, che si innamora di lui e lo introduce nel mondo dell'alta finanza, Filippo avvia una lucrosa attività imprenditoriale che lo porterà a scontrarsi con le impietose regole del sistema, ma si farà trovare pronto a mettere da parte scrupoli e moralità per conquistarsi una posizione sociale rilevante.

L'ora di punta è un lavoro che, nelle intenzioni, tenta di agganciarsi a quella tradizione cinematografica d'impegno civile tipica degli anni '70 puntando il dito contro la corruzione che opera trasversalmente a tutti i livelli dell'imprenditoria e all'interno degli organi che dovrebbero fungere da garante legale (la stessa Guardia di Finanza). Marra focalizza la propria attenzione su un ipotetico furbetto la cui estrazione umile e l'ambizione smodata ci riportano alla mente personaggi e fatti di cronaca che negli ultimi anni hanno occupato le pagine dei quotidiani. In questa sua critica sociale, però, il regista abbandona l'asciuttezza e il rigore tipici dei suoi primi lavori per approdare a uno stile più ordinariamente melodrammatico. Il ritratto a tutto tondo del suo squalo del quartierino che allontana la famiglia e gli affetti accompagnandosi a una donna che lo può introdurre nell'ambiente giusto, quello dei politici e dei banchieri che manovrano i fili invisibili del potere, passa necessariamente attraverso la mostrazione di eventi topici che, alla fin fine, sembrano incarnare i luoghi comuni più scontati dell'Italietta nostra.

La sceneggiatura si mostra fin da subito debole nella sua prevedibilità e il mordente necessario per portare avanti una denuncia coraggiosa quale è quella del film di Marra si perde nella foga di voler dimostrare la propria tesi a ogni costo. Le scelte fatte sul piano lavorativo, che vedono Costa buttarsi dapprima a capofitto nel sistema delle mazzette per poi agganciarsi al politico di turno e accedere a finanziamenti che gli permettano di lucrare sulle speculazioni economiche, e quelle in ambito sentimentale (la duplice relazione con l'ex fidanzata tradita e con la donna matura e benestante) sembrano uscite da un manuale del perfetto arrampicatore sociale. Non solo il protagonista, ma tutti i caratteri soffrono di questo psicologismo unidirezionale che non accetta sfumature e si ripercuote, purtroppo, anche nella recitazione degli attori: lo sguardo glaciale che il quasi esordiente Michele Lastella indossa per tutto il film come una maschera si alterna all'espressione dolente ed emaciata di Fanny Ardant creando un effetto innaturale e monocorde. La stessa regia indugia morbosamente sui primissimi piani dei volti amplificando con movimenti di macchina l'effetto drammatico di questa finta parabola dostoievskjiana che, interrompendosi bruscamente al culmine del peccato, ci priva della presa di coscienza della colpa e del relativo castigo, improbabile in un Italia contemporanea dove la parola d'ordine per i furbetti che tentano la scalata al potere con mezzi illeciti sembra essere proprio impunità.

Movieplayer.it

2.0/5