Recensione Senza arte né parte (2011)

Ancora una volta un certo tipo di commedia dimostra di intuire il disagio che serpeggia nella nostra società, in un mondo che frustra i colpi di genio (pur se bislacchi), ma si rivela incapace di trasformarlo in un discorso più ampio, spuntando le sue armi e privilegiando una risoluzione finale buonista.

Incredibile, ma falso

La semplicità di ogni capolavoro che si rispetti spinge a dire 'anche io posso fare una cosa così, non ci vuole poi molto'. Non è esattamente così. Scomodare Totò non sembra fuori luogo questa volta. Impossibile dimenticare il suo Bubi, versione à la page del maestro Ubaldo Scanagatti, eroe di Totò a colori; un uomo che decide di vendicare l'onore di tutti gli spettatori arrabbiati, sputando nell'occhio dell'imbrattatele che aveva osato riprodurre un Picasso. "_Veramòn l'ha fatto lei?" _E giù improperi per il malcapitato artista. Naturalmente Picasso era incolpevole. Non era la bruttezza dell'opera ad essere in discussione, quanto il fatto che un artistello qualunque si sentisse legittimato a riprodurla. Certamente il maestro Scanagatti sarebbe stato più comprensibile con Enzo, Carmine e Bandula, perché le loro riproduzioni servono più prosaicamente a tirare avanti dopo l'inaspettato licenziamento dal pastificio in cui lavoravano. Il cavalier Tammaro rimordenizza la fabbrica e taglia i rami secchi, decidendo di investire parte dei suoi guadagni in opere d'arte, spinto dalla bella consulente Giulia Manna. Così in Salento arrivano dei pezzi pregiatissimi di arte contemporanea.


In un impeto di paternalismo mal celato, Tammaro chiama i suoi ex operai a fare da guardiani a quel tesoro. I tre scoprono con grande stupore che quell'assemblaggio di nettatubi è in realtà il celebre Baco da Setola di Pino Pascali e che l'innocuo uovo bianco con una strana impronta sul guscio è l'Uovo di Piero Manzoni. Le tele poi non sono difettose, ma un certo Lucio Fontana le aveva tagliate così anni prima con un tagliabalsa. I soldi sono pochi, le esigenze tante (la famiglia da mantenere, un'ex moglie da riconquistare, due figlie da sposare) e insieme si lasciano affascinare da un piano strampalato. Sostituire con riproduzioni false le opere vere e rivendere quest'ultime ad appassionati collezionisti. L'espediente funziona benissimo, tanto che i tre, con l'aiuto di Marcellino, intrallazzatore e testa calda, mettono su una vera e propria fabbrica d'arte. A guastare tutto ci pensa ancora una volta l'inconsapevole Tammaro che mette all'asta le opere d'arte. Quelle fasulle però. Recuperare i manufatti veri, portarli a Roma e sostituirli con quelli falsi diventa l'ennesima missione impossibile. Anche se a supporto dell'improvvisato poker d'assi arriva Aurora, la moglie di Enzo.

L'esito di Senza arte né parte può non essere del tutto riuscito, ma è lodevole il tentativo del regista Giovanni Albanese (artista invitato alla Biennale di Venezia) di raccontare con ironia e leggerezza una molteplicità di temi così complessi, come il senso dell'arte, la sua riproducibilità, e, naturalmente, la sua commerciabilità. Un'opera può anche essere falsa, ma come dice il feroce gallerista interpetato da Ninni Bruschetta, una volta stabilito il suo prezzo è quello il valore. Supportato dalla recitazione fluida e divertita degli attori, il bravissimo Vincenzo Salemme, Giuseppe Battiston e Hassani Shapi, lo script scorre con brio, concendendosi almeno una scena davvero efficace, quella della prova generale dello sbarco a Roma per sostituire le opere false con quelle vere.
Nonostante questo, alcuni passaggi appaiono farraginosi e poco approfonditi. E' il difetto principale della sceneggiatura firmata dal 'solito' Fabio Bonifacci, bravo a delineare le dinamiche che movimentano il gruppo di personaggi (composto anche da Donatella Finocchiaro e Giulio Beranek), ma incapace di andare in profondità nella loro vita, nelle loro storie personali. Ancora una volta un certo tipo di commedia dimostra di intuire il disagio che serpeggia nella nostra società, in un mondo che frustra i colpi di genio (pur se bislacchi), ma si rivela incapace di trasformarlo in un discorso più ampio, spuntando le sue armi e privilegiando una risoluzione finale buonista. L'epilogo è ovviamente lieto, ma a ben guardare è solo una frenata rispetto alla spensierata rincorsa al successo che aveva animato i protagonisti. Se l'arte rappresenta davvero un momento di stacco per la vita di questi quattro diavoli, alla fine continua ad essere un mondo distante, a loro precluso. Meglio investire sul business dello sciroppo di melograno, qualcosa che si consumi in grandi quantità e soddisfi bisogni più 'carnali'.

Movieplayer.it

3.0/5