Il muro nelle parole di Simone Bitton

La divisione insanabile tra Israele e palestina raccontato in un interessantissimo documentario: ce ne parla la regista.

Esce in Italia un importante documentario che ha fatto incetta di riconoscimenti nei festival di mezzo mondo. A presentarlo è la sua regista, Simone Bitton, la cui anima araba ed ebrea si riflette in questo importante film sul muro che divide Israele dalla Palestina.

A parte l'ufficiale israeliano, tutte le persone israeliane e palestinesi che ha intervistato nel suo film sono contro il muro o comunque si mostrano scettiche verso questo muro.

Il film è stato fatto in un momento in cui il muro non era ancora finito, era un'idea, un progetto che doveva essere realizzato e finché era solo un'idea, vista come la soluzione per il problema del terrorismo, la maggior parte degli israeliani era favorevole alla sua costruzione. Io mi sono chiesta cosa pensino queste persone ora che il muro è una realtà, ora che nasce di fronte ai loro occhi. Ho fiducia negli esseri umani e ho voluto fare un film che si svolgesse lungo il cantiere di costruzione del muro, volevo parlare con le persone che vivevano lì fisicamente, che vedevano questo muro materializzarsi di fronte ai loro occhi. E sicuramente non mi sono sbagliata perché molte delle persone che forse erano d'accordo col progetto del muro quando l'hanno visto crescere hanno capito l'oscenità, la follia di questo muro che non serve a niente, che non potrà servire a nulla se non a distruggere. In fase di montaggio non ho toccato niente, non ho scelto io di inserire solo il punto di vista di coloro che sono contro il muro. Tutti sono infelici in questa situazione, in presenza del muro, però sicuramente non sono potuta entrare nel cuore di tutte le persone che ho incontrato. Ho realizzato questo film per amore, per amore verso questa terra e per i due popoli che la abitano, per il paesaggio, per le due lingue che si parlano e sicuramente questo amore è contrastato da questo muro. Perciò ho cercato la mia tristezza nelle altre persone che vivono vicino al muro e purtroppo l'ho trovata. Durante il montaggio volevo che emergessero il dolore, il dispiacere che è mio piuttosto che le opinioni politiche contrastanti. Se c'è una cosa che mi da piacere nella vita è confondere un arabo per un ebreo e viceversa, ma con questo muro ognuno starà dalla sua parte e non avrò più la possibilità di confonderli.

Ha avuto difficoltà a girare questo film?

Sicuramente ci sono state delle difficoltà, ma ce ne sono sempre nella realizzazione di un documentario, che è sicuramente più difficile da fare rispetto a un film. Fare un documentario in un paese in guerra era sicuramente difficile, ma alla fine il film esiste, è stato realizzato e quindi vuol dire che io e la mia troupe ce l'abbiamo fatta. L'unica difficoltà che abbiamo avuto è che non siamo riusciti ad entrare fisicamente nella striscia di Gaza e quindi siamo dovuti ricorrere alla videoconferenza per girare l'intervista con lo psichiatra presente alla fine del film. Questa forma di comunicazione della videoconferenza è probabilmente una prefigurazione di quello che succederà tra un po', quando questo diverrà l'unico modo che avrò per comunicare con i miei amici che sono dall'altra parte. Le vere difficoltà però sono per coloro che vivono e muoiono in Palestina e in Israele, quindi sarebbe osceno parlare di difficoltà tecniche. Io mi sento una privilegiata in quanto sono ebrea araba, ho potuto viaggiare liberamente da un lato all'altro del muro, sono riuscita ad entrare in contatto con i soldati e sicuramente questo film un cineasta palestinese o israeliano non avrebbe mai potuto farlo.

Il film fa nascere spontanea una riflessione su due precedenti del muro: i ghetti europei che per anni hanno separato gli ebrei dagli altri e il muro di Berlino. Com'è possibile che la stessa generazione che ha gioito per la caduta di questo muro oggi sia così indifferente all'edificazione di quest'altro?

Noi non siamo una pagina bianca, abbiamo tutti una memoria storica e sicuramente quella di Israele è molto pesante. L'uomo che verso la fine del film mi ha accompagnata in questa passeggiata lungo il muro afferma che forse l'unica maniera che noi ebrei conosciamo per risolvere i problemi è quella di rinchiudere noi stessi o gli altri. I miei genitori non hanno conosciuto che questo tipo di vita e perciò ho tremato quando ha detto questa cosa. E' una cosa che forse inizialmente non era presente fra le tante cose che ci sono nel film, ma ha aperto la strada a delle riflessioni molto importanti e sono grata che ne abbia parlato perché questo muro è proprio il sintomo di una malattia, della malattia di cui soffrono gli ebrei. Per quel che riguarda il muro di Berlino questo parallelismo c'è soprattutto a livello visivo in quanto entrambi non sono altro che barriere di cemento armato, ma la differenza è che in Israele e in Palestina dai due lati del muro c'è sempre la stessa gente che comanda.

Le immagini finali del film ricordano molto quelle del ghetto di Varsavia. Quest'associazione visiva, questa storia che si ripete non potrebbe apparire al pubblico eccessivamente scioccante?

Ognuno di noi trova un'associazione storico-culturale rispetto a ciò che vede e volevo che ognuno trovasse un qualcosa del quale parlare. Per me, per esempio, l'associazione non è quella. L'ultima immagine, quella della donna palestinese appoggiata con la mano al muro, mi ha fatto venire in mente il muro del pianto. Mia madre quando si recava al muro del pianto ci appoggiava sopra una mano e quindi io ci ho visto qualcosa di sacro, ma ognuno ci troverà qualcosa di diverso. Io voglio che lo spettatore trovi un suo posto all'interno del film. Il muro è un'idea planetaria. Sono convinta che il ventunesimo secolo sarà il secolo dei muri, della separazione, in cui in i più forti avranno sempre più paura dei più deboli e continueranno a chiudersi. E' questo quello che ho voluto trasmettere.

Pensa che l'elezione di Abu Mazen avrà delle conseguenze sulla costruzione del muro, sull'idea del muro?

Non è Abu Mazen che sta costruendo il muro. Il muro è un'idea israeliana. Abu Mazen può protestare, ma non ha alcun potere relativamente al muro. Il potere è nelle mani degli occupanti, non degli occupati: è Sharon che può fare qualcosa. Sono molto felice per l'elezione di Abu Mazen e sono rimasta molto commossa dalla grande partecipazione del popolo palestinese a queste elezioni. Andando a votare i palestinesi hanno dato una grandissima prova di maturità politica, di democrazia, e hanno chiesto al mondo di essere liberati. Il potere però non è nelle mani di Abu Mazen, ma in quelle di Israele, degli Stati Uniti, del mondo. E' una grandissima ipocrisia quella che si sta diffondendo negli ultimi anni, di dare cioè la colpa dell'occupazione agli occupati e di dire che ora che non c'è più Arafat potrà finire quest'occupazione.