Recensione Sotto le bombe (2007)

Solido film d'impegno civile, dettato da uno stato di necessità autentico, Sotto le bombe rimane in bilico tra documentario e fiction nella fase della pellicola che ripropone con spontaneità l'atmosfera respirata e vissuta dal popolo libanese nelle giornate di guerra.

Dalla parte delle vittime

Tentare di cogliere e riportare in un film il dolore, i ricordi, le impossibili ragioni e le vicende umane e belliche legate a una guerra, anche solo parzialmente lontana nel tempo dal periodo in cui la pellicola è girata, rappresenta già di per sé un'operazione cinematografica complessa. Ma la complessità è destinata ad aumentare nel momento in cui si porta sul grande schermo una ferita ancora fresca e pulsante, come quella risalente allo scoppio, il 12 luglio 2006, dell'ennesimo episodio di scontro nello storico conflitto israelo-libanese. Nei 33 giorni seguiti all'inizio delle ostilità tra Hezbollah e Israele, le bombe israeliane sono piovute sul Libano, provocando almeno 1100 vittime e circa un milione di profughi. È l'urgenza di raccontare il caos e la disperazione vissuti dal suo paese, a guidare il regista libanese Philippe Aractingi alla direzione di Sotto le bombe, film presentato in numerosi festival, tra cui la 64esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione delle Giornate degli Autori e l'ottava edizione del Human Rights Nights, rassegna di cinema e arti dei diritti umani promossa dalla Cineteca, dal Comune e dall'Università di Bologna insieme alla Regione Emilia Romagna e al Center for Constitutional Studies and Democratic Development.

Nello scenario apocalittico di quei giorni di luglio, una donna, Zeina (Nada Abou Farhat), riesce - passando dalla Turchia - ad arrivare in Libano nel giorno del "cessate il fuoco". Anche se l'emergenza non è di certo finita. Zeina vuole raggiungere Kherbet Selem, nel sud del Paese, per trovare la sorella e il figlio Karim di cui non ha più notizie dall'inizio del conflitto, ma l'unico disposto a correre un tale rischio è il tassista Tony (Georges Khabbaz). Se, in un primo momento, l'uomo sembra soltanto speculare sul dramma della giovane donna per ricavarne un bel gruzzolo, il tortuoso percorso che li porta sulle tracce della famiglia di Zeina li avvicina inesorabilmente, nonostante le differenze. Zeina è sciita e vive a Dubai con un marito abbiente che però la tradisce. Per evitare al figlio Karim i dolorosi strascichi di un divorzio in corso, la madre lo aveva mandato dalla sorella in Libano per regalargli qualche momento di serenità. Tony, cristiano di Beirut, sogna di stabilirsi in Germania per aprire un ristorante, ma in realtà è fortemente disilluso sulle opportunità di lasciare il Libano, soprattutto dopo che il fratello si trova esiliato in Israele, impossibilitato a tornare a casa. La ricerca dei due protagonisti continua incessantemente tra centri di raccolta profughi, ponti crollati e strade distrutte, ma ad attenderli, una volta giunti al paese natio della donna, c'è una terribile scoperta: la sorella di Zeina è morta sotto le macerie della casa di famiglia, mentre il figlio, stando alla testimonianza di un bambino del villaggio, Alì, è stato raccolto e tratto in salvo da alcuni giornalisti francesi. Il viaggio prosegue allora nella speranza di ritrovare Karim, ma con una desolazione strisciante che monta nelle anime dei protagonisti man mano che attraversano un paese lacerato, rischiando le proprie esistenze nella valle ribattezzata "della morte" dagli israeliani e "dei martiri" dagli Hezbollah.

Philippe Aractingi ha girato Sotto le bombe in due fasi, producendolo (grazie anche al sostegno di produttori ebrei) nel tempo record di un anno, in modo da rincorrere il più possibile l'attualità e puntare i riflettori sulla questione israelo-palestinese prima che l'attenzione dei mass media e dell'opinione pubblica mondiale scemasse. Se la prima parte della pellicola è realizzata con macchina a mano e in presa diretta, in cui gli attori improvvisano sulla base di un canovaccio tessuto dal regista, senza trucco o scenografie, nutrendosi direttamente dalla realtà che circondava la troupe, la seconda parte è stata scritta e prodotta in Francia, dove Aractingi ha cercato il giusto distacco da quanto stava accadendo per non creare un'opera di aperta propaganda.

Solido film d'impegno civile, dettato da uno stato di necessità autentico, Sotto le bombe rimane in bilico tra documentario e fiction nella fase della pellicola che ripropone con spontaneità l'atmosfera respirata e vissuta dal popolo libanese nelle giornate di guerra, scegliendo poi definitivamente la strada della finzione nel sviluppare la storia di Zeina e Tony. Una modalità di racconto, quella insita nella fiction, che ha consentito al regista di restituire con maggiore empatia e aderenza le emozioni dei sopravvissuti agli attacchi e di quanti, come la protagonista femminile, non si riconoscono nella 'ragioni' scatenanti le ostilità («Questa non è la mia guerra», afferma Zeina, disperandosi con il tassista nel ricordo della sorella caduta sotto le bombe). La natura pacifista della pellicola risulta evidente. Aractingi abbraccia pienamente il punto di vista libanese, ponendosi dalla parte delle vittime che subiscono il conflitto. Il cineasta non si concentra, infatti, sulle motivazioni geo-politiche, ma su quelle umane. Quelle di una madre che, dilaniata dai sensi di colpa, lotta per riabbracciare il figlio.

I pochi riferimenti alla condizione socio-politica del Libano emergono nella storia del fratello di Tony, collaborazionista esiliato, che viene raccontata allo spettatore attraverso le parole del tassista accompagnatore di Zeina. Una storia che non viene volutamente approfondita nel discorso filmico, ma che concorre a far luce sulla complessità e la storicità delle origini di un confronto destinato, nel corso degli anni, a deflagrare in modo ciclico tra le parti in causa. Particolarmente interessante è la parabola personale di Zeina. Giunta in Libano da Dubai con un moderno abito turchese che risaltava la femminilità, la donna riprende progressivamente consapevolezza delle proprie radici, vestendo con un sobrio abito nero e un velo per coprirsi i capelli. Ma si tratta, in ogni caso, della figura di una donna sciita lontana dagli stereotipi convenzionali e da un immaginario in qualche modo prefissato. A testimoniare una realtà multisfaccettata e priva di nette linee separatorie.