Recensione Delivery (2004)

Quella proposta dal regista è un'Atene sporca, fatiscente, quella dei sottoborghi e degli emarginati, una città senza colore ritratta senza pieta in ogni particolare dell'inquadratura.

Atene senza i cinque cerchi

Avete ancora negli occhi le immagini, i colori e i suoni della scintillante Atene olimpica? Ebbene dimenticatevele in fretta: quella proposta dal regista greco Nikos Panayotopoulos è un'Atene sporca, fatiscente, quella dei sottoborghi e degli emarginati, una città senza colore ritratta senza pietà in ogni particolare dell'inquadratura.

E questo l'ambiente di Delivery, un film sulla vita degli esclusi della capitale greca, un sottobosco che spazia dalla squallida vendita di bottiglie di acqua ai funerali fino a una decrepita residenza in uno scantinato, sfruttando per dieci secondi alla volta la corrente del condominio.

In questo contesto arriva un ragazzo senza nome dal nulla (Thanos Samaras), che giunge in città e vaga cercando lavoro. Il suo è un muoversi lento in una città frenetica, un altro ritmo rispetto alla vita degli altri, condiviso dagli altri emarginati dalla società. I suoi incontri sono tutti con gente che trasuda la bruttura di un'esistenza relegata ai margini. La sua solitudine pacata si scalfirà solo per un'amicizia con un ex becchino che dice di sapere tutto sulla morte, e per un'avventura erotica con una ragazza drogata (Alexia Kaltsiki) che lavora con lui in una pizzeria. Ma tutti i rapporti sono destinati a concludersi male, perché il destino di questa gente è segnato.

In una sorta di lenta favola nera il regista greco consuma con cura il suo viaggio all'inferno, ma nel finale cerca di strafare con la vena fantastica e il ritorno verso il nulla del protagonista (forse il Delivery del titolo, che significa anche liberazione) sa di trovata furba dal punto di vista poetico ma anche di scorciatoia tutto sommato gratuita.