Armageddon Time, la recensione: l’ora di diventare grandi

La recensione di Armageddon Time: James Gray torna in concorso a Cannes con un coming of age autobiografico che purtroppo non coinvolge come avremmo sperato.

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Una scena di Armageddon Time

Registi che si guardano indietro (e anche dentro). Registi alla ricerca della prima scintilla che ha reso il cinema indispensabile, ricordando il loro primo amore. Negli ultimi mesi lo hanno fatto in tanti. Dai dolori necessari di Paolo Sorrentino alla dolcezza di Kenneth Branagh, passando per il romanticismo di Paul Thomas Anderson. È difficile non iniziare una recensione di Armageddon Time, nuovo film di James Gray in concorso al Festival di Cannes 2022, senza pensare agli ultimi film autobiografici che ci hanno tanto commosso e scosso. Un impatto emotivo che a Gray rimane quasi strozzato in gola, come se la storia di repressione messa in scena ne avesse in qualche modo condizionato lo stile. Come se scavare nella propria vita lo avesse spinto a proteggersi da solo, a nascondere le cose scomode da mostrare a tutti. Forse è per questo che il regista americano non ha affondato il colpo, rimanendo così in superficie. Un gran peccato, perché Armageddon Time aveva tutto il potenziale per lasciare il segno, visto che Gray ha legato la sua vita a una fase fondamentale per gli Stati Uniti d'America. Eppure tutto rimane soffocato dentro un'apocalisse rimasta solo nel titolo, ma non dentro il cuore dei personaggi e (forse) del pubblico.

Testa tra le nuvole

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Un frame di Armageddon Time

Primi anni Ottanta. New York. Tipica famiglia borghese dalle parti del Queen's. Qui si muove lo spirito inquieto del piccolo Paul, figlio di genitori severi, nipote di un nonno amorevole. Unico legame familiare con cui la sensibilità del ragazzino riesce a sintonizzarsi davvero. Il piccolo ha la fama di pecora nera: ha la testa tra le nuvole, sogna di fare l'artista, non vuole saperne di seguire le regole. Dopo essere stato allontanato dalla sua vecchia scuola, per Paul è tempo di guardare in faccia la realtà e diventare grande. È questo la prima apocalisse di Armageddon Time. Un'apocalisse intima, piccola, privata, che coincide col disincanto nel cuore di un ragazzino che sognava l'avventura ed è costretto a piegarsi al volere di genitori rigidi.

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Una scena tratta da Armageddon Time

Genitori figli di quell'America quasi reaganiana, in cui anche il giovane Donald Trump muoveva i primi passi. Un'America accecata dal capitalismo, che voleva partorire solo futuri leader pragmatici, padri di famiglia e uomini d'affari che avrebbero segnato gli anni Ottanta per sempre. Ed eccola qui la seconda apocalisse, questa volta collettiva, questa volta di tutti. Perché quel decennio, quei gloriosi e rampanti anni Ottanta, hanno traviato generazioni intere di sognatori, dando vita al distorto sogno americano. È questo il punto di vista di Gray, che guarda quella mentalità con gli occhi del ragazzino deluso. Una prospettiva che però fatica a venire a galla, a diventare davvero urgente e appassionante.

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Piedi per terra

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Anthony Hopkins in Armageddon Time

Difficile entrare nel cuore di questo dramma familiare. Difficile entrare in empatia con i personaggi di Armageddon Time. Forse è colpa di un protagonista a tratti respingente, che Gray ha avuto il coraggio di non rendere adorabile ma fieramente scontroso. Non aiutano anche i due genitori (dove spicca una Anne Hathaway intensa e contradditoria) fermi sui classici binari della severità ottusa (e a tratti violenta) e una scrittura a tratti farraginosa, che a volte cerca l'emozione facile in modo ricattatorio, altre gira in tondo senza affondare il colpo. Nonostante al centro del film ci sia un contrasto forte come la visione del mondo di un ragazzino che stride con quello degli adulti, Armageddon Time questo conflitto non lo fa mai avvertire davvero. Tutto rimane sospeso, sussurrato, abbozzato. A elevare il tutto ci pensa un (come sempre) monumentale Anthony Hopkins, a cui bastano un paio di scene, pochi gesti e qualche sguardo per emozionare in modo autentico. Il suo personaggio (il nonno di Paul) è il volto più bello di questa apocalisse privata e corale, l'apice di un film che non mantiene le sue belle promesse. A James Gray questo film autobiografico sembra rimasto di traverso. Bloccato da qualche parte dentro di lui. A mancare è proprio l'intimità, il rischio di mettersi a nudo. In quella New York speranzosa degli anni Ottanta non ha vinto solo Reagan. Ha vinto anche il pudore.

Conclusioni

Un dramma familiare a tinte tenui. Così abbiamo descritto il ritorno a Cannes di James Gray nella nostra recensione di Armageddon Time. Un coming of age autobiografico, in cui il regista newyorkese rilegge la sua adolescenza con occhi sognanti e allo stesso tempo disillusi. Un film che purtroppo non appassiona mai davvero, come protetto da una patina di pudore personale per il proprio vissuto da proteggere.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
3.7/5

Perché ci piace

  • La prova sontuosa di un magistrale Anthony Hopkins.
  • La scelta di legare una "piccola" apocalisse personale a una collettiva, sociale e politica.
  • Il tono sommesso ha grande senso della misura...

Cosa non va

  • ...ma frena l'impatto emotivo di un film che fatica a coinvolgere.
  • Alcuni personaggi sono incastrati dentro vecchi stereotipi.