Recensione Un segreto tra di noi - Fireflies in the garden (2008)

Fireflies in the garden ripropone, non sappiamo quanto consapevolmente, modi e forme tipici della grande tradizione melodrammatica degli anni '50 - '60 incentrata su conflitti familiari e drammatici contrasti.

Affari di famiglia

Melodramma retrò per l'esordiente Dennis Lee che, alla sua prima pellicola tratta dall'omonima pièce teatrale scritta per elaborare il lutto della morte improvvisa della madre, riunisce un cast di tutto rispetto coniugando grandi nomi hollywoodiani e giovani star provenienti dal piccolo schermo. Capitanati dai veterani Julia Roberts e Willem Dafoe, marito e moglie nella finzione, Emily Watson, Carrie-Anne Moss, Ryan Reynolds e Hayden Panettiere interpretano i membri della famiglia Taylor colti in momenti diversi delle proprie vite. Al di là dell'impianto, sostanzialmente classico sia nella struttura che nella confezione, la scelta narrativa più pregnante operata dal regista riguarda l'uso del flashback. La mostrazione degli eventi traumatici che coinvolgono la famiglia Taylor viene ritardata e centellinata attraverso un sapiente gioco di alternanze presente/passato che evidenziano una serie di corrispondenze le quali ci permettono di ricostruire il percorso di formazione dei personaggi e fanno luce sulla dimensione del conflitto che corrode dall'interno le fondamenta familiari svelando a poco a poco gli atroci segreti che si nascondono dietro una parvenza di normalità altoborghese.

Fulcro della vicenda è Michael, bambino precoce con il vezzo della letteratura e in perenne contrasto col padre-padrone Willem Dafoe che, nel tentativo di imporre il suo ruolo di figura paterna di riferimento, incappa nello spirito sensibile e ribelle del figlio scatenando un conflitto che neppure l'amorevole madre e moglie Lisa (Julia Roberts) riesce ad appianare. Divenuto adulto, Michael, ancor pieno di rancore, scrive un romanzo autobiografico per liberarsi la coscienza e vendicarsi una volta per tutte delle violenze subite rendendole pubbliche. Il libro è sul punto di essere pubblicato quando la scomparsa improvvisa della madre, morta in un incidente d'auto appena prima di una riunione di famiglia, cambia le carte in tavola costringendo gli altri membri a un confronto chiarificatore. Bella e accurata l'ambientazione di questo dramma di impianto teatrale girato in gran parte a Austin, Texas e nelle aree circostanti. La scelta di alternare la ricostruzione di due linee narrative di eventi accaduti a distanza di ventidue anni movimenta l'esposizione dei fatti creando attesa nello spettatore, avvinto dai segreti morbosi che la famiglia Taylor, e in particolare il violento capofamiglia, sembra nascondere. Questo continuo confronto presente/passato viene esplicitato attraverso l'uso significante degli elementi a disposizione del regista: tutto, dall'uso del colore e della luce al tessuto dell'immmagine passando per gli elementi simbolici contenuti all'interno del testo filmico, concorre alla trasmissione del messaggio. L'intento dichiarato di Dennis Lee è quello di voler scandagliare in profondità un conflitto che corrode dall'interno le dinamiche familiari analizzando accuratamente la personalità dei singoli caratteri.

In questo senso essenziali sono le scelte di montaggio che, affiancando e selezionando i momenti topici della narrazione, filtrano e ricostruiscono tutto ciò che lo spettatore deve vedere omettendo dettagli che verranno svelati solo nell'epilogo per non compromettere la tensione diegetica. La storia procede così per ellissi, omissioni e svelamenti che conducono dritti al drammatico chiarimento finale. Al di la di questa scelta di sviluppo temporale non lineare, salta agli occhi fin dai primi fotogrammi che Fireflies in the garden ripropone, non sappiamo quanto consapevolmente, modi e forme tipici della grande tradizione melodrammatica degli anni '50 - '60 (per intenderci quella dei Douglas Sirk o Elia Kazan). Il taglio delle inquadrature, i colori pastellati, i dialoghi e le relazioni che intercorrono tra i personaggi, ma soprattutto la trama stessa rivelano una patina di antico che accosta il film a un filone a cui hanno attinto a tutti i livelli registi più o meno blasonati.

Se di recente un'operazione filologicamente accurata e artisticamente riuscita come quella compiuta da Todd Haynes con Lontano dal paradiso aveva riportato in auge il revival del genere, quando si va a vedere l'opera prima di Dennis Lee sembra che il risultato ottenuto sia stato raggiunto senza alcuna progettualità alla base. Le radici profondamente autobiografiche della vicenda si mescolano con uno stile patinato e un po' retrò che sembra condurre quasi per caso al risultato estetico definitivo. Niente da dire sulle interpretazioni dei personaggi o sull'accuratezza stilistica e registica. Quello che manca al film è, di fatto, una personalità ben definita, difetto questo sicuramente imputabile all'inesperienza di Lee, ma che raffredda una pellicola basata essenzialmente su una dimensione sentimental-emotiva, ridimensionandone, purtroppo, l'impatto sullo spettatore. Sospeso in questa situazione di limbo tra passato e presente, il film di Dennis Lee sceglie la via più semplice per accattivarsi le simpatie dello spettatore piazzando un finale consolatorio, con tanto di proiezione del filmino di famiglia, là dove fino a poco prima i conflitti sembravano insanabili. Scorciatoia questa accuratamente - e intelligentemente - evitata da Haynes, che in questo caso pesa come un macigno sul giudizio complessivo sulla pellicola facendo risultare un lieto fine "necessario", almeno a detta del regista, così tanto stucchevole.

Movieplayer.it

3.0/5