Il regista Olivier Assayas porta alla 69.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia la sua rilettura del movimenti studenteschi degli anni '70. In lizza per il Leone d'Oro, Apres Mai racconta le esperienze di un gruppo di giovani della Parigi del 1971, dalle lotte politiche ai primi passi nel mondo del lavoro, cercando, per quanto possibile, di mantenere intatta la purezza degli ideali che li ha spinti a scendere in piazza e a ribellarsi. Alcuni di loro si aggregano ai nascenti gruppi terroristici, altri come Gilles e Alain, liceali attratti dall'arte, se ne distanziano per cercare una propria realizzazione altrove. Apres Mai nasce dunque con la volontà di descrivere i momenti successivi al maggio del '68, troppo vicino a livello temporale per essere dimenticato, eppure già stravolto nei suoi dettami. Partendo da una manifestazione maoista del 9 febbraio 1971, tra gli eventi più discussi della storia francese, Assayas racconta le spaccature interne ai singoli gruppi politici, descrivendo con mano ferma il percorso alla scoperta di sé stessi di questi ragazzi alle prese con un periodo storico tumultuoso e carico di significati. Il regista transalpino ha incontrato oggi la stampa affiancato da Lola Creton e agli altri giovani attori del cast, tra cui Clement Métayer e Hugo Conzelmann.
Assayas, quando si pensa ai cosiddetti sessantottini, l'immagine che si ha è quella di ragazzi e ragazze comunque privilegiati, che al termine delle manifestazioni tornavano in ricche case borghesi. Anche lei pensa di aver fatto lo stesso ritratto di quella generazione?Non lo credo assolutamente. Il protagonista Gilles è figlio di un produttore cinematografico ed è effettivamente cresciuto in un ambiente borghese, come del resto è capitato a me, ma non ho voluto dare alcuna definizione sociale degli altri personaggi. E questo perché nella periferia parigina, quella in cui è ambientato il film, c'era una mescolanza sociale molto forte. Inoltre ci tengo a precisare che questo non è un film sul '68, periodo storico che difficilmente si può rappresentare al cinema, ma su quello che è avvenuto dopo. Racconto le vite di ragazzi che sono cresciuti nel solco di un periodo rivoluzionario, ma distanti da esso.
Nella manifestazione che apre il film si vedono i poliziotti a bordo delle motociclette. Era davvero così?
Sì, negli anni '70 furono introdotte delle squadre speciali di celerini in moto e vennero impiegati proprio in occasione della manifestazione che avete visto. La squadra è stata sciolta dopo la morte di un liceale, colpito durante uno scontro.
Come mai proprio adesso ha sentito il bisogno di raccontare quel periodo storico?
In realtà lo avevo già affrontato nella pellicola del 1994 L'eau froide, ma in quel caso si trattava di un film con un approccio molto poetico ed astratto. In questo caso ho voluto fare una versione più romanzata e realista di quel preciso momento, che poi è stato quello della mia adolescenza.
Nonostante il forte amore per la vita è stato comunque un periodo malinconico e questo sentimento impregna tutto il film. Oggi si tende a raccontare l'adolescenza in maniera molto caricaturale, con le feste dove si rimorchia e basta, mentre all'epoca eravamo molto seri. In parte questa serietà era legata all'ossessione politica. I ragazzi erano stritolati da una sorta di super-io e dal senso di responsabilità che si aveva nei confronti della classe operaia. La sinistra era triste e violenta. Nonostante questo però nel film c'è una forte presenza dell'amore e della tenerezza.
Cosa vorrebbe che i giovani di oggi capissero dal suo film?
Non saprei dirlo, non faccio film per veicolare dei messaggi in particolare. Ho solo rappresentato quello che ho vissuto e come l'ho vissuto. Sta poi ai giovani di oggi vederci qualcosa. Devono essere loro a dire se gli ideali che racconto nel film erano fede nel futuro e nella trasformazione della società o qualcosa di vecchio e superato.
Nel film è sottolineato a più riprese il ruolo dei documentari politici che mostravano ciò che veniva oscurato dai canali tradizionali. E' convinto che anche il cinema possa avere questa funzione?
Il cinema è un'arte e non un mezzo di informazione e in quanto arte deve rappresentare le contraddizioni del mondo preservandole, lasciando che il pubblico giudichi secondo il proprio sguardo. Non ho mai voluto dirigere lo sguardo dello spettatore né informarlo. Questo pensiero è un inganno.
Certo, ma dobbiamo capire che i mezzi di comunicazione erano diversi da quelli di oggi, che nel bene e nel male sono democratizzati. Tv, radio e giornali erano solo quelli degli adulti e non venivano mai messi in discussione. La controcultura, invece, con la musica underground e la free press presentava la stessa esperienza del mondo ad un'intera generazione, con una grandre risonanza. Era una cosa magnifica.
Altro aspetto interessante del film è il discorso che i personaggi fanno sul linguaggio nuovo che il cinema di quegli anni avrebbe dovuto sviluppare, perché, come dice Gilles, idee nuove hanno bisogno di un linguaggio nuovo. E' un aspetto che l'ha coinvolta in prima persona?
Sì, certo. Nel film la questione è mostrata con una certa ironia, ma in quei tempi se ne discuteva davvero tantissimo e si era piuttosto categorici. Tutti i film 'normali' diventavano una manifestazione piccolo borghese e a questo si reagiva o con il cinema sperimentale o con il documentario puro. Personalmente scommetto sul fatto che è possibile creare un personaggio e rappresentare sentimenti e situazioni in forma non convezionale, almeno questo è quello che ho sempre cercato di fare. Il cinema è rimettersi in discussione e reinventarsi. Se uno è sincero e parte da qualcosa di intimo, il cinema dà la possibilità di concepire l'arte come resurrezione, come mezzo per riportare in vita tutto quello che ci sta più a cuore.