Torino 2007: il concorso - Prima parte

Una prima disamina sulle novità della gestione morettiana, che sacrifica in parte lo sforzo retrospettivo per rinvigorire la sezione del concorso.

Tante, troppe inutili polemiche hanno preceduto e seguito la prima edizione del Torino Film Festival affidata a Nanni Moretti e alla sua squadra. Tra promesse (relativamente mantenute) di continuità e timore di snaturamento, ansie per la presenza forte e involontariamente accentratrice di Moretti, polemiche con Roma e pregiudiziali giornalistiche, sembra che i più si siano dimenticati di parlare dei film che hanno animato l'edizione di quest'anno. Perché se esiste un metro di analisi sensato per valutare la bontà del lavoro svolto andrebbe rintracciato nella selezione. Ecco appunto che emerge la prima significativa differenza di questa edizione, che ha sacrificato un po' la ricercatezza del lavoro retrospettivo - di fatto negli anni il vero motivo di interesse del festival - a favore di un grande sforzo per rinvigorire la sezione del concorso. Sforzo che con esclusione di qualche titolo francamente discutibile si è dimostrato tutt'altro che vano, a dimostrazione che, per quanto possa essere inflazionato il settore dei festival cinematografici, di film da vedere e godere ce ne sono sempre, basta cercarli. E' mancata la scintilla, è vero; il film folgorante (La promessa dell'assassino escuso), ma quali festival attualmente posso fregiarsi di opere indimenticabili. Sempre ammesso che abbia un senso, nel 2007, per un festival rincorrere dei capolavori.

L'inizio è stato dei più convincenti con La famiglia Savage opera seconda di Tamara Jenkins, commedia caustica e intelligente su una famiglia in completo dissesto, dove un fratello e una sorella soli e disincantati si ritroveranno uniti per gestire la malattia del padre. Un tema abbastanza battuto, ma affrontato dalla Jenkins con ricchezza contenutistica e mano salda. Non ci sono spazio fortunatamente per eccessi e stramberie, quanto meno per quell'empatia a volte soffocante che anima il cinema indipendente americano; la Jenkins va dritto al punto con convinzione e una buona dose di distacco, supportata dalle ottime interpretazioni di Laura Linney e Philip Seymour Hoffman.

Non fa gridare al miracolo ma neanche allo sdegno The art of negative thinking del norvegese Bård Breien, opera prima che prende di petto tutte le teorie positive con cui la pedagogia e la cultura contemporanea affronta il fenomeno dell'handicap. Se il modo con cui Breien porta avanti il suo discorso fa un po' troppo Lars Von Trier e la cifra stilistica è un po' asfissiante, la riflessione sulla malattia non è affatto stupida. Indiscutibilmente divertenti poi alcuni momenti, dove l'humour nero di Breien non risparmia niente e nessuno.

C'erano grandi aspettative invece per The Home Song Stories, melodramma autobiografico dell'australiano di origini hongkonghesi Tony Ayres, che attraversa trent'anni abbondanti di storia per raccontare la movimentata infanzia di un fratello e una sorella costretti a fronteggiare l'instabilità emotiva di una madre attraente ma incapace di gestire la sua vita. Avrebbe di certo fatto bene un po' piu di coraggio nelle scelte narrative e stilistiche al film che soffre di uno spiccato accademismo, di una drammaturgia telefonata e soprattutto non si dimostra molto capace di entrare in sintonia con lo spettatore. Eppure The Home Song Stories non è opera da bocciare e la delusione è più il risultato delle potenziali aspettative generate dal film che da un'obiettiva mediocrità.

Siamo invece dalle parti del vacuo autorialismo con The Blue Hour di Eric Nazarian, film americano a episodi pretestuosamente intrecciati in cui si raccontano piccole storie francamente irritanti di quotidiana perdita sullo sfondo del Los Angeles River. Cinema antinarrativo fatto di silenzi, sguardi e ambizioni documentaristiche ma anche privo di qualsiasi sguardo personale sul narrato.

Di difficile digeribilità anche il malese The Elephant and the Sea di Ming Jin Woo, portatore di un' estetica orientale da festival che comincia davvero a stancare. Pubblicizzato come un epigono di Tsai Ming Liang, in realtà il regista malese non sembra avere un briciolo del cineasta taiwanese e ed esso lo si può accomunare solo per ciò che concerne un approccio alla narrazione estremamente dilatato. Ma ben presto la curiosità per le piccole storie umane di questo villaggio malese colpito da un'epidemia si esaurisce e ci si comincia a chiedere se al di fuori della questione esotica il film metta in campo riflessioni di qualche portata.

Ottimo davvero invece l'esordio alla regia di Sarah Polley, affermata e giovane attrice che aveva già sorpreso all'ultimo festival di Belrino con questo Away from Her - Lontano da lei. Il film racconta di un lungo legame d'amore tra Fiona e Grant (gli incredibili Julie Christie e Gordon Pinsent) afflitto dall'arrivo l'Alzheimer che colpisce Fiona e stravolge la vita del suo uomo. Struggente racconto sulla vecchiaia e sull'amore che sorprende per lo sguardo calibrato e maturo della Polley che fa sfoggio di una compostezza stilistica preziosissima e di un lavoro sugli attori davvero notevole.

Positivo ma con qualche dubbio il giudizio sul lettone Volgelfrei interessante esperimento di cinema corale. Quattro registi per quattro episodi incentrati sullo stesso personaggio e sulla sua crescita. Dall'infanzia, all'adolescenza, dalla maturità alla vecchiaia il film si raffronta con un personaggio a tratti indecifrabile, incapace di confrontarsi con gli altri. Molto interessante l'episodio iniziale e quello finale che con una messa in scena lenta e ipnotica riesce a dare la dimensione solitaria del protagonista. Meno riusciti gli episodi centrali, per un film comunque piacevole.