Si sono ormai chiusi i riflettori sul red carpet capitolino, ed è tempo di bilanci.
Il primo dato che salta agli occhi è che se la Festa veltroniana voleva accreditarsi come leale competitor della Mostra di Venezia, e che in quanto tale noi abbiamo sempre difeso, ha totalmente fallito il proprio obiettivo.
Si potrebbe discutere se, in fondo, il creare un nuovo polo d'attrazione per critica ed esercenti fosse veramente lo scopo degli organizzatori, ma non si può non dimenticare la lunga polemica che l'anno scorso precedette la kermesse romana, anche a seguito del contendersi delle due rassegne di numerose pellicole che scelsero l'una piuttosto che l'altra per il lancio sulla piazza italiana ed europea.
Polemica che era in fondo segnale della profonda competizione che Roma lanciava alla Biennale, sia dal punto di vista prettamente cinematografico, sia come operazione politica globale.
I due festival sono infatti terreno di scontro di una lotta tutta interna al centrosinistra italiano. La causa principale è il successo del "metodo veltroniano", che veicola consensi popolari e stringe i giusti rapporti attraverso un massiccio intervento di finanziamento e sostegno al mondo della cultura, dell'arte e del cinema. L'affermarsi di tale impostazione ha portato sì in qualche misura benefici alla capitale, ma è stata percepita come campanello d'allarme del tentativo del Sindaco di Roma di fagocitare, con il suo operato, tutte le diverse specificità del panorama politico e culturale capitolino.
Un Rutelli che avoca a sé il Ministero della Cultura stoppando le aspirazioni di Bettini, senatore veltroniano e presidente della Fondazione Cinema per Roma, che sfila sulla passerella veneziana promettendo un investimento di 20 milioni per il nuovo palazzo del cinema da realizzarsi al Lido (e provocando la stizzita reazione a mezzo stampa di Bettini stesso, e il sentito ringraziamento del rutelliano Cacciari, sindaco di Venezia), è il concretizzarsi pubblico di tali tensioni.
Da qui l'esigenza degli organizzatori di mascherare quello che si configura in tutto e per tutto come un 'normale' festival in qualcos'altro, nella fattispecie in una grande festa del e per il pubblico.
Con alcuni indubbi successi e numerose problematiche.
Anzitutto la macchina organizzativa e mediatica messa in campo per la realizzazione della Festa è stata imponente e efficace. Avendo sfruttato l'Auditorium, struttura splendida e funzionale, coinvolti grandi critici come Sesti e Monda, direttori di testate prestigiose come Ciak, e intessuta una fitta rete di contatti e conoscenze per portare sin da subito le grandi star nella capitale, la Festa ha sin da subito rastrellato un massiccio finanziamento da sponsor che l'ha resa (quasi) autosufficiente. Grande poi il successo di pubblico, con l'innovativa scelta di vendere un numero considerevole di biglietti al pubblico e a prezzi di mercato, limitando invece le proiezioni per stampa e accreditati vari.
Ma anche, dicevamo, serie problematiche.
Campeggia il fatto che Roma è una città capofila nella distribuzione cinematografica odierna. Per intenderci, fatto salvo il grande blockbuster che ha da subito una diffusione di 500 copie sul mercato, tutte le altre pellicole, se risultano un flop a Roma e nelle poche altre città capofila (Milano, Palermo, Napoli ecc...), difficilmente troveranno un ulteriore ampliamento della distribuzione, decretando così il fallimento commerciale di una pellicola.
Un pubblico così ampio come quello della Festa, con il relativo passaparola, veicolo principe oggi nella scelta della pellicola da vedere, collocato in una città così centrale per le sorti distributive e dunque economiche di ogni lavoro, può facilmente da solo sancire un flop a botteghino (qualcosa ne sa il Napoleone di Virzì).
Compresa questa dinamica, la seconda edizione della Festa si è caratterizzata per la presenza di poche grandi pellicole con una distribuzione solidissima alle spalle (si pensi a Leoni per agnelli, a Into the Wild, a Giorni e nuvole e a qualcun'altra), e a una serie di film minori, quasi sconosciuti, che poco avevano da perdere in ogni caso, e che hanno caratterizzato, per esempio, quasi interamente la selezione in concorso.
Quella fascia intermedia, composta da solide pellicole di autori emergenti, che cercano la partecipazione ad un festival come vetrina e lancio del proprio lavoro, è totalmente scomparsa, e non senza ragioni, dal palcoscenico capitolino.
Non può dunque essere un festival nel senso ortodosso del termine.
Ma la Festa di Roma non può nemmeno essere a tutto tondo, per le ragioni già esposte, una vera e propria festa del pubblico.
Si è rifugiata così in questo strano ibrido, che pone sotto le luci della ribalta la sezione Premiere, composta da grandi film (quello di Sean Penn su tutti) e modesti comprimari, e il fuori concorso (che ospitava quest'anno Lumet e Redford), veri catalizzatori di star e attenzioni, accantonando così un concorso privo di qualsiasi verve capace di attirare attenzioni e curiosità su quello che così diventa un binario morto di tutta la manifestazione.
Così concepita, la kermesse romana ha poco futuro. Occorre un ripensamento, un aggiustamento di rotta. Per il quale dovrà sicuramente passare del tempo. Un cambio drastico di formula sarebbe un'implicita ammissione degli errori, ed è impensabile che avvenga in quello che è, come già visto, anche un evento politico.
Ma occorre iniziare a prenderne coscienza e a ragionarvi, per il bene del cinema e degli appassionati.
Per non rimanere soffocati, più che da Venezia, da sé stessi.