Ha riscosso consensi ma non così unanimi, Reality, presentato pochi giorni fa, fuori concorso, sulla Croisette. Era forse inevitabile, questo esito, per un film che tratta un tema problematico e complesso come quello della televisione moderna e del suo effetto sulla vita delle persone, calandolo in una realtà, come quella napoletana, di per sé facilissima a prestarsi a fraintendimenti e generalizzazioni. Mettiamoci pure il fatto che il regista Matteo Garrone era chiamato a confermarsi dopo gli apprezzamenti internazionali per il suo Gomorra, e si capirà come questa sua ultima opera non solo abbia suscitato grandi attese, ma si sia prestata inevitabilmente a dividere e a generare discussioni: ciò, considerata anche la coraggiosa scelta del regista, ovvero quella di usare il tono della commedia per raccontare una storia che, presa in sé, ha poco di divertente e molto di amaro.
Di questo, del particolare momento della carriera del regista, e del suo approccio al cinema in generale, Garrone ci ha parlato durante un breve ma stimolante incontro avuto con noi proprio a Cannes, in attesa che il suo film sbarchi finalmente, per suscitare presumibilmente le stesse discussioni, anche sul suolo italico.
Può dirci di più sul fatto reale che sarebbe alla base del film?
E' una piccola storia molto simile a quella del film, su cui preferisco non dire molto. Quello che posso dire è che, stranamente, le parti aggiunte da noi sembrano quelle reali, mentre viceversa le parti prese dalla realtà sembrano frutto di fantasia. La scena del grillo, ad esempio, è realmente accaduta.
Non c'entra col film, ma può dirci due parole sulla notizia della sua convocazione alla procura di Napoli, in occasione di Gomorra? Com'è andata realmente?
Io non ho problemi a parlarne, visto che ho già chiarito tutto con il magistrato. Vi invito comunque a riflettere: un pentito racconta una cosa successa nel 2007, la scrive in un libro, e a quel punto una giornalista, validissima, riporta la notizia sul quotidiano Il Mattino. La cosa viene quasi dimenticata finché un regista non viene preso a Cannes col suo nuovo film: all'improvviso, a una settimana dal festival, qualcuno si sveglia di nuovo con questa notizia, a così tanto tempo di distanza. Perché?
Nonostante lei dica di essere tornato a divertirsi per realizzare un film, la storia raccontata è comunque per certi versi agghiacciante...
Non sempre, quando racconto una storia, riesco a capirne subito la drammaticità: me ne accorgo solo a lavoro finito. Nelle intenzioni questa doveva essere una commedia, anche se con risvolti drammatici: ma la sua drammaticità è venuta fuori poco per volta durante la lavorazione. A così tanta distanza, comunque, non me la sento di dire come vedo attualmente il film: me ne sono distanziato a tal punto che è come se fossi cieco nei suoi confronti.
E' un'interpretazione valida come un'altra. Io non me la sento di dare spiegazioni precise sul film, perché qualsiasi spiegazione rischia di banalizzare, o togliere ad altre persone la libertà di vedere nel film quello che vogliono. Il film nasce comunque con l'intento di raccontare una favola moderna, ma anche il viaggio negli inferi di un uomo che pian piano perde la sua personalità.
Dopo il caso degli ergastolani protagonisti di Cesare deve morire, di cui si è parlato molto a Berlino, molti dicono che c'è un maggiore capacità attoriale da parte di quelli che hanno realmente vissuto una tragedia. E' così?
Secondo me, l'interpretazione straordinaria di Aniello è valorizzata dal fatto che anche lui, come persona, ha scoperto durante le riprese un mondo che non conosceva: negli occhi gli si legge il suo stupore e la sua innocenza, che sono gli stessi del personaggio. E' stato comunque un interprete straordinario, che ha fatto un grandissimo esordio.
Il quadretto di famiglia è apparentemente idilliaco, ma nessuno poi "salva" il protagonista...
La famiglia è il detonatore dei fatti, è da lì che nasce il contagio: dal tessuto sociale in cui il protagonista vive, che non è solo quello popolare e napoletano, ma è al contrario qualcosa di trasversale.
E' un elemento che fa parte della dimensione fiabesca, un po' da cartoon, del film. Per certi versi l'ho girato un po' come un cartoon della Pixar, anche se ciò non doveva mai scadere nel grottesco o nuocere alla credibilità dei personaggi.
Perché ha questa predilezione per gli attori poco conosciuti al grande pubblico?
Io scelgo i volti in base al tipo di ruolo: in questo caso, questi attori si sposavano bene col tipo di storia fiabesca che volevo raccontare.
Nel film c'è un certo contrasto tra due anime diverse di Napoli...
Il desiderio di cambiare la propria vita, o per un senso di insoddisfazione o perché si crede che il mondo dello spettacolo possa diventare il paradiso in terra non riguarda un solo ceto sociale. Napoli è una città ricca di contraddizioni, che conserva luoghi legati direttamente al passato insieme a luoghi moderni, che sono quasi dei non-luoghi.
Ha girato il film con in mente dei modelli?
C'è quello de Lo Sceicco bianco, a cui però mi hanno fatto pensare dopo le riprese, e inoltre quello di Bellissima. Ma forse, da un punto di vista figurativo, i film a cui ho più pensato sono stati Matrimonio all'italiana e l'Oro di Napoli, in quella malinconia un po' eduardiana che emanano. In questo film, in effetti abbiamo un po' sia di Eduardo De Filippo che di Vittorio De Sica.