Pochi personaggi possono vantare la carriera folgorante di Addison Montgomery. La dottoressa fa la sua entrata (ad effetto, le va riconosciuto) nell'ultima puntata di quello che sembrava l'ennesimo medical da midseason, utilizzato per colmare i vuoti di palinsesto delle serie principali. Invece Grey's Anatomy tiene compagnia al pubblico da quasi un decennio, con l'incredibile merito di aver superato, quasi indenne, scandali e cambi di cast.
La rossa chirurgo prenatale ha letteralmente rubato la scena alla specializzanda Meredith eclissandola con charme da femme fatale. Perché sprecare tanto potenziale narrativo per un ruolo secondario in uno scenario corale? Ecco allora il colpo di genio di Shonda Rhimes, che scrive uno spin-off su misura per Kate Walsh, Private Practice (in onda dal 5 febbraio su FoxLife con la sesta e ultima stagione), ottenendo il duplice risultato di dare maggior risalto ad Addison e di scongiurare il pericolo di oscurare Ellen Pompeo e affossarne il telefilm. Addio corsie ospedaliere di Seattle! Basta pioggia: la destinazione è una clinica privata di Los Angeles dove splende sempre il sole.
Addison è l'ultima arrivata, ma si sente a casa perché Sam e Naomi (Taye Diggs e Audra McDonald), soci dello studio, sono una sua coppia di amici di lunga data. Lo staff medico comprende anche la psicologa Violet Turner (Amy Brenneman, Giudice Amy), il pediatra Cooper Freedman (Paul Adelstein, Prison Break) e il naturopate Pete Wilder (Tim Daly, Il fuggitivo). Altri colleghi lavorano a stretto contatto con loro: Charlotte King (KaDee Strickland), capo del St. Ambrose Hospital di Santa Monica; lo psichiatra Sheldon Wallace (Brian Benben, Dream On); l'endocrinologo della riproduzione e dell'infertilità Jake Reilly (Benjamin Bratt, The Cleaner) e il neurochirurgo Amelia Sheperd (Caterina Scorsone), sorella di Derek, il primo marito di Allison. Per capire la natura di Private Practice basta seguire l'evoluzione dei personaggi: dall'inizio alla fine la serie resta fedele al suo lato femminile, al risvolto rosa che prima o poi tutte le vicende prendono. I casi clinici, in effetti, si rivelano uno più assurdo e surreale dell'altro e riescono a sfiorare un livello di ridicolo difficilmente raggiungibile. Meglio, quindi, concentrarsi sulla natura emotiva che ne ha costituito la forza e garantito un'incredibile longevità. Come ha scritto la stessa creatrice nel comunicato finale, "è piuttosto raro per un telefilm superare i 100 episodi e noi siamo orgogliosi di esserci riusciti".
Chiudere i battenti dopo 111 puntate sembra quasi un record per uno spin-off e il merito va attribuito soprattutto alla facilità con cui il pubblico riesce a relazionarsi ai protagonisti, non tanto per la loro eccellenza in campo professionale, ma per la loro incredibile umanità. Tutti loro riescono a collezionare errori e disastri di tale natura che sarebbe impossibile non affezionarcisi. Una pausa dalle loro vicissitudini sentimentali potrebbe comunque risultare salutare per scongiurare un intossicazione da zuccheri.
Il finale, in effetti, conferma la natura naïve e leggera della storia. La battuta conclusiva resta l'unico momento davvero memorabile di un episodio piuttosto piatto. Matrimoni, gravidanze e funerali sono il cocktail standard degli addii seriali: in questo caso manca uno degli ingredienti ma ci si arriva vicino, pur senza scatenare alcun terremoto emotivo nello spettatore. Chi segue abitualmente Private Practice sa cosa aspettarsi: i protagonisti si complicano la vita sentimentale finché un evento traumatico azzera la situazione e li accompagna magicamente verso la soluzione. E loro, come se nulla fosse, si ritrovano in questa bolla di sapone all'apparenza perfetta che scoppierà con il dramma successivo. Questo meccanismo da soap, ripetitivo e rassicurante, avrebbe potuto durare all'infinito ma gli alti costi di produzione hanno contribuito ad accelerarne lo stop.
"Ci vedo un po' di Jane Austen - ha commentato Kate Walsh ad Hollywood Reporter - in un grande finale, un po' fiabesco e un po' fantastico". Taye Diggs pensa che non avrebbe saputo scriverne uno migliore: "Tutto ha un senso". "Shonda ha voluto trasmettere l'idea che tutto il gruppo sarebbe rimasto insieme", aggiunge Paul Adelstein, mentre per Amy Brenneman è stato un sollievo "non assistere a nulla di catastrofico, ma vivere una conclusione dignitosa e amorevole". Tutto il cast è d'accordo su un punto: sarebbe divertente fare un salto di 15 anni nel tempo in un nuovo spin-off incentrato sui figli dei protagonisti. In effetti questi bambini promettono intrecci migliori della dinastia Forrester in Beautiful perché fin dal concepimento o nascita o adozione hanno vissuto le situazioni più incredibili. Certo, il dramma del rapimento durante il parto di Violet è difficilmente eguagliabile, ma di sicuro Shonda Rhimes ha una scorta di drammi di riserva a cui attingere. Con la certezza che tutto si risolverà nel migliore dei modi e la vita tornerà ad essere più felice di prima, tranne per il povero Pete stroncato da un infarto e vittima dei tagli al budget della serie.
Nel bene o nel male un prodotto artistico dovrebbe lasciare una traccia, invece i titoli di coda di Private Practice producono un'annoiata indifferenza. Neppure visitando il set dei Raleigh Studios che a Los Angeles ospita la Oceanside ho avuto una reazione forte di qualsivoglia genere. Non si avvertiva il cameratismo allegro degli studios di Criminal Minds né il clima formale da tregua armata di Desperate Housewives o la sacralità da regno di una primadonna, come in Dirt. I teatri di posa mostravano un clima asettico, tipico degli ospedali o delle caserme, e la presenza degli attori non aggiungeva alcun tipo di vibrazione.
La studiata perfezione di ogni particolare nella ripetitività di uno schema ben collaudato ha risucchiato ogni guizzo di originalità, garantendo al tempo stesso a Private Practice la sopravvivenza nel panorama del piccolo schermo in modo ammirevole, ma senza infamia né lode.