Con soli tre film, nell'arco di quattro anni, un giovane regista sbanca i botteghini di mezzo mondo, si impone all'attenzione della critica, reinventa le regole di un genere, rilancia un filone - quello horror - che alla fine degli anni '90 mostrava ormai la corda.
Quella di M. Night Shyamalan, al secolo Manoj Nelliyattu, nato a Pondicherry, India, nel 1970, è una delle figure di maggior spicco tra gli "autori di successo", tra quei registi cioè che pur perseguendo una personale e riconoscibile poetica e non rinunciando a una peculiare cifra stilistica, non perdono mai di vista l'obbiettivo imprescindibile (per il cinema che amano e che amano fare) degli incassi.
E' Il sesto senso (1999), il primo grande progetto che gli viene affidato, a lanciarlo nel firmamento delle stelle fabbrica-soldi, a consacrarlo presso il grande pubblico nuovo re del thriller fantastico, a evidenziare le sue straordinarie capacità di narratore e di tecnico agli occhi degli spettatori più attenti.
Il sorprendente finale ('i finali a sorpresa di Shyamalan') diviene il suo marchio di fabbrica, una sorta di magnifica esca al servizio del box office, un segno distintivo indelebile al punto che, nonostante se ne allontani già nel secondo Unbreakable - Il predestinato, per poi abbandonarlo completamente in Signs, costituirà la principale attrattiva per una parte consistente del suo pubblico.
Pubblico che godrà ancora di quelle paure primarie (la paura della morte, la paura della solitudine, del caso, dell'altro) di cui Shyamalan è abile manipolatore, ricercandole e ritrovandole in testi che si faranno via via sempre più complessi, dispositivi capaci di produrre discorsi articolati facendo leva su emozioni pure, di costruire - suggerendole - raffinate riflessioni sull'uomo, la fede, il caos, l'etica, la politica.
E così Unbreakable, riflessione profonda e lucida sulla perdita della solidarietà e della fiducia in sé stessi dell'uomo postmoderno, sarà il film sui supereroi e sui poteri paranormali. E così basteranno poche rade inquadrature a fare di Signs, un film che si interroga sui più alti misteri della vita, sullo scopo stesso (sull'esistenza di uno scopo) del vivere e sul peso di una solitudine esistenziale conseguenza di una banalizzazione estrema di un agire governato dal caso, un horror fantascientifico: una gamba che appare per un attimo e scompare fugace in un campo di granturco, tanto a lungo attesa la rivelazione del mostro eppure così improvvisa e scioccante.
Shyamalan avanza nella sua esplorazione dell'anima senza mai abbandonare i meccanismi consolidati della suspence e del thrilling, meccanismi di cui è maestro, che gli assicurano successo e presa emotiva sul pubblico e che lo legano indissolubilmente al grande cinema di genere.
E' questa adesione - apparentemente incondizionata - al genere (da sempre fondamento del cinema hollywoodiano più che di altre cinematografie), altra caratteristica portante del suo lavoro. Come altri grandi del cinema americano, Shyamalan si serve delle convenzioni e dei linguaggi del genere come di strumenti per far breccia nelle coscienze dello spettatore, per provocarne il totale abbandono di fronte a modelli consueti e familiari (visivi, ma non solo: si pensi alle musiche 'hitchcockiane' di James Newton Howard), come mezzo per veicolare le sue visioni allegoriche della condizione umana nelle sue drammatiche insufficienze relazionali e conoscitive.
Riflessione decisamente più vocata al metafisico e all'atemporale che al discorso politico e sociologico contingente. I personaggi di Shyamalan soffrono della distanza provocata da diversi livelli di consapevolezza (l'uomo e il defunto, l'uomo e il supereroe), vittime di una rete di menzogne collettive (la leggenda metropolitana dei segni nel grano, forse scherzo grossolano di qualche dispettoso fattore), e di una coscienza collettiva fatta di divieti e tabù (The Village), con l'implicita allusione che esistano sempre altre prospettive, altri punti di vista, altri orizzonti, altri territori dell'esperibile e del codificabile. Una concezione mistica dell'esperienza che è al tempo stesso una tragica denuncia di un limite e un incitamento al gesto titanico del superamento del limite stesso, allo squarcio nel velo.
Shyamalan è scrittore molto tecnico: le sue storie seguono sempre le regole e i tempi.
Padrone delle forme classiche della sceneggiatura, esperto nell'uso dei dispositivi narrativi, dei segni, dei simboli, dei motivi, abilissimo nel manipolare le emozioni dello spettatore, nel creare microclimi emotivi attraverso l'abile uso di artifici retorici codificati. Ed è forse questo approccio tradizionale alla narrazione a suscitare il senso del ridicolo e la perdita di realismo che molti dei suoi detrattori provano, perché è un approccio che stride con i nuclei tematici a cui è applicato: discorsi 'alti' che diventano clichés per il modo in cui sono raccontati. Ciò che può essere rassicurante per alcuni sembra essere profondamente irritante per altri.
Contraddistinto da un magistrale senso del colore, da una patina arcaicizzante che rifugge le mode del momento, da una elegante compostezza dei movimenti di macchina e da una forte composizione del quadro delle immagini, lo stile di Shyamalan non ha paura di apparire pudico quando l'inquadratura di due amanti sul punto di baciarsi si sposta nel momento cruciale per soffermarsi su una sedia vuota, di cedere al romanticismo esasperato di un ralenti, alla struggente tristezza di una plongée su un giovane corpo privo di vita. Anche qui il rispetto delle forme, anche qui la riproposizione di consuetudini consolidate, l'amore per il cinema classico, per il genere, per i modi rappresentativi tradizionali. Un amore che divampa di genio e di coraggio in certi momenti, come quando, all'inizio di Unbreakable, in una memorabile inquadratura senza stacchi su un dialogo tra due viaggiatori ripresi dalle aperture tra i sedili di un treno, Shyamalan reinventa il campo e controcampo.