Ha dichiarato di essersi stupito, il regista Lech Majewski, che l'uscita italiana in sala del suo film I colori della passione (The Mill and The Cross) sia stata salutata quasi come un evento. Di stupirsi del nostro stupore, evidentemente, il regista polacco ha tutte le ragioni, vista la larga distribuzione internazionale della sua pellicola (54 paesi, oltre al nostro) e l'ottima accoglienza da essa finora ricevuta; ma anche visto il suo amore per la cultura italiana, ribadito nella conferenza stampa di presentazione del suo film, la teorica predisposizione del paese di Dante Alighieri (ma anche di Giorgio De Chirico e Michelangelo Antonioni, tutti nomi omaggiati dal regista nel corso dell'incontro) alla ricezione di un'opera sì complessa, ma sicuramente stimolante a livello visivo e intellettuale. Insomma, siamo un "popolo di artisti" ormai disabituato all'arte, e più in generale alla cultura; al punto che la distribuzione di un film come questo viene salutata come una piccola vittoria per chi sostiene una certa idea di cinema, che trova sempre meno spazi nei circuiti distributivi (anche indipendenti) ma che si rivela invero sempre più necessaria. Vecchi discorsi, che però ogni tanto è bene ribadire, almeno finché la situazione che li origina resta sostanzialmente invariata.
Comunque, I colori della passione, trasposizione filmica del quadro di Pieter Bruegel La salta al Calvario, si è rivelata un'esperienza visiva di assoluto livello, sicuramente problematica e di non immediata fruizione, ma potente nel suo fondere senza soluzione di continuità i linguaggi del cinema, della pittura e della videoarte (campo d'elezione, quest'ultimo, privilegiato dal regista); senza dimenticare quei tableau vivants di ascendenza medievale che qui acquistano nuova vita e vanno a costituire l'elemento visivo (e tematico) principale di un'opera il cui fascino non è mai fine a sé stesso. Del film, del suo cinema, di Bruegel e più in generale del suo rapporto con le varie espressioni artistiche ha parlato il regista nella suddetta conferenza stampa, breve ma (come il suo film) ricca di spunti di riflessione interessanti.
Lech Majewski: Quando ero un teenager visitavo spesso mio zio, che insegnava al conservatorio di Milano; per raggiungerlo passavo spesso per Venezia ma anche per Vienna, prendevo il treno della notte e spesso visitavo il museo di storia dell'arte. Lì, nella stanza 10, c'erano tutti i principali capolavori di Bruegel: è così che li ho conosciuti. Potevo passare ore ad ammirarli, quando entri nel suo mondo ne vieni subito catturato, ipnotizzato, come da una calamita: la sua arte tira lo spettatore dentro al dipinto. Ci sono diversi livelli nelle sue opere: il primo è quello più semplice, quello della narrazione; poi c'è il l linguaggio dei simboli, che lui dissemina in ogni angolo; infine scopri la sua filosofia, quella caratteristica unica di nascondere i suoi caratteri principali. Nelle sue opere troviamo sempre il soggetto principale nascosto sullo sfondo, mentre in primo piano si vedono dei personaggi meno importanti: è una particolarità che è soltanto sua, non esistono altri pittori che ce l'abbiano. C'è una profondissima saggezza, in questo: il significato è che ti possono accadere davanti agli occhi le cose più importanti ma tu non te ne accorgi, perché sei preso dalla routine quotidiana. Prendiamo ad esempio il suo quadro che raffigura la caduta di Icaro: chiunque altro avrebbe dipinto Icaro come un bellissimo uomo, in primo piano, che cade dal cielo, invece Bruegel fa l'opposto, mette in primo piano il contadino, il pastore, il pescatore... tu ti chiedi "ma dov'è Icaro"? Io ho impiegato la sua filosofia anche a teatro, quando ho realizzato l'Edipo: lì, ho messo in primo piano la gente che soffriva, e solo sullo sfondo il dramma di Edipo.
L'ha stupita la larga distribuzione internazionale di un film come questo?
Nel film si fa largo uso di simboli, ma in genere esiste una simbologia più semplice, immediata, e una rivolta solo agli iniziati. Come si è approcciato a queste due tipologie di simboli?
Io parto dal presupposto che oggi siamo ciechi, non guardiamo. Tutto ciò che vogliamo vedere è uno zoom più veloce, siamo in un periodo in cui facciamo tutto ad alta velocità... All'epoca di Bruegel il simbolismo era molto più diffuso, ora invece c'è una rete dai contorni indefiniti. Le persone erano più abituate a contemplare: se si voleva dipingere una mela, bisognava prima guardarla, ma guardarla davvero. Si verificava un processo strano, allora: si vedeva nella mela qualcosa di più profondo. La cultura era molto più contemplativa, le famiglie acquistavano i dipinti ed erano abituate a guardarli e a scoprirne sempre particolari nuovi: anche i bambini, di fronte a un dipinto, facevano andare la fantasia e vi ambientavano storie sempre nuove. E' come leggere Dante: in Dante c'è tutto, astronomia, filosofia, politica, orrore... ora sto realizzando un progetto che gira intorno a Dante, ed è sorprendente vedere come la sua opera sia così ricca di temi. Parlando di simboli, per esempio, mi è stato chiesto cosa rappresentasse la donna che si nasconde pane appena comprato sotto la veste. In primo luogo, quella forma rimanda a una donna incinta, che all'epoca era un simbolo benaugurante vista l'alta mortalità infantile; in secondo luogo, nelle Fiandre il pane, che per il cristianesimo è Corpus Christi, veniva anche considerato un simbolo di protezione; infine, non bisogna dimenticare che quelle erano regioni fredde, e quindi il pane caldo, appena sfornato, aveva anche un'importante finalità pratica.
Non vedo differenze di sorta. Io amo anche scrivere e comporre musica, per esempio la musica originale che si trova nel film è mia. Ci sono cose che necessitano di essere scritte, altre composte, altre filmate.
Nella scena finale del film, lei aveva tante alternative: poteva rimanere nel quadro, ma sceglie invece di fare una panoramica della sala in cui questo è appeso, quasi come se si tornasse alla realtà risvegliandosi da un sogno. E' una sospensione temporale, quindi, o una specie di omaggio a sé stesso come regista?
E' tutto questo insieme.