Il pubblico occidentale oggi forse stenterà a riconoscere il suo volto. Anche perché nelle interpretazioni che lo hanno reso celebre negli ultimi anni, quelle dei due volumi di Kill Bill, ha recitato sempre con il viso camuffato: mascherina nera (simile a quella di Bruce Lee nella serie The Green Hornet) per impersonare il capo della gang degli "88 folli" e soprattutto una foltissima e candida barba per il ruolo del mitico Pai Mei, il maestro di Uma Thurman. Quasi un contrappasso, perché per lungo tempo il campione d'arti marziali Gordon Liu, alias Chia Hui Liu, dopo aver riscosso nel 1978 un successo planetario con La trentaseiesima camera dello Shaolin, è rimasto indissolubilmente legato all'immagine del monaco buddista dal cranio rasato. Lau Kar-fai (questo il suo nome cantonese) è divenuto una delle icone più pregnanti del kung fu movie anni Settanta e Ottanta, inferiore per fama forse solo a Bruce Lee, ma che, al pari del "piccolo drago", è stato in grado di influenzare anche la cultura popolare d'Occidente: basti pensare al gruppo hip-hop Wu Tang Clan che lo ha eletto a personale fonte d'ispirazione molto prima che Tarantino riportasse il genere alla ribalta.
Impossibile farsi sfuggire l'occasione di incontrare questa leggenda vivente, giunta per la prima volta in Italia per presentare L'urlo di Chen terrorizza ancora l'Occidente (Dragonland), ovvero il primo documentario italiano interamente dedicato al fenomeno del kung fu movie, di cui è testimonial d'eccezione. Il documentario, realizzato dallo scrittore, sceneggiatore ed esperto d'arti marziali Lorenzo De Luca e prodotto dalla MacroMajora Films, è al momento ancora in cerca di una distribuzione DVD. Nonostante la sua fattura artigianale e low-cost, L'urlo di Chen terrorizza ancora l'Occidente stupisce per come sviscera la materia trattata con una ricchezza quasi enciclopedica, sia attingendo alle numerose fonti d'archivio di De Luca (tra cui interviste audio a Brandon Lee e Jackie Chan), sia attraverso una frequentazione diretta dei luoghi del kung fu. E, soprattutto, è impreziosito dalle testimonianze di numerosi protagonisti del cinema di genere di quagli anni: oltre alle star Gordon Liu e Lau Kar-leong, troviamo anche artisti marziali vecchio stampo del calibro di Eddy Ko, Bruce Liang, Chiu Chi Ling, Fred Williamson, senza dimenticare i nostrani Franco Nero, Bud Spencer, Enrico Vanzina, Aurelio De Laurentiis, e molti altri.
"Sono onorato" -- confessa Gordon Liu -- "che un italiano abbia deciso di venire a Hong Kong per ricostruire la genesi del cinema d'arti marziali, con riferimento soprattutto al periodo classico degli anni Settanta. Ma al tempo stesso mi rammarico del fatto che nessun cinese oggi sia interessato a riscoprire il fenomeno del kung fu". L'attore ci confida di non trovarsi più in sintonia con la società hongkonghese contemporanea e con il suo cinema: "Ormai Hong Kong è divenuta una metropoli ricca e occidentalizzata e i giovani non sono più interessati al vecchio cinema di kung fu, che rielaborava i miti e la tradizione locale trasmettendo anche un messaggio positivo. Adesso vanno per la maggiore solamente i film ricolmi di effetti speciali ma del tutto privi di contenuto".
Gordon Liu, assieme al fratello adottivo Lau Kar-leong, uno dei più grandi registi esperti d'arti marziali di tutti i tempi con cui ha lavorato per un'intera carriera, si fa portatore di un'inaspettata (almeno per noi spettatori occidentali) visione etica del kung fu. "Dopo Zhang Che, un regista di formazione letteraria che si interessava di più all'aspetto narrativo, Lau Kar-leong ha deciso di riportare il kung fu al centro dei film, anche ritornando nei luoghi originari in cui erano praticate le arti marziali, come i templi e le scuole, con lo scopo di trasmettere un messaggio educativo". "Se osservate tutti i film realizzati da Lau Kar-leong" -- prosegue Gordon Liu "noterete che quasi in nessun caso il duello conduce a esiti mortali, e lo scorrere del sangue è molto limitato. Il kung fu conduce allo scontro, anche cruento, ma mai all'annientamento dell'avversario: può servire anzi a conoscere l'altro e ad appianare le controversie". Parole che cozzano inevitabilmente con l'immagine stereotipata che il kung fu movie ha assunto agli occhi degli occidentali, considerato per molti anni solo come uno spettacolo di serie B truce e cruento. In questo senso il documentario di De Luca è formidabile nello scandire ciascun capitolo dedicato alla scoperta della vera arte del kung fu (anche intrufolandosi nelle autentiche palestre di Hong Kong) con incipit che, per contrasto, riportano gli esilaranti slogan dei manifesti italiani d'epoca, come "I più fortunati morivano subito", "Non ti serve una bara, basta un sacchetto", "Spade veloci come pistole, dita mortali come proiettili", e via delirando.
Oggi sembra non esistere più spazio per due veterani di un altro mondo come Gordon Liu e il suo maestro Lau Kar-leong, che da anni cerca invano un produttore disposto a finanziare il suo Heroes of Shaolin, ultimo capitolo della saga del tempio buddista. "Purtroppo" -- spiega Liu rammaricato -- "attualmente non esiste più mercato per le produzioni di kung fu classico, quelle, cioè, in cui il corpo dell'atleta veniva messo a dura prova fino alla massima tensione possibile, e le imprese marziali erano compiute solo grazie a duri esercizi e allenamenti, senza alcun ausilio di effetti speciali o cavi. Il pubblico odierno non accetterebbe più questo tipo di film: ormai è troppo abituato al cinema-videogioco".
Facile intuire, dunque, il giudizio dell'attore sulle attuali produzioni marziali sino-hongkonghesi, costituite in prevalenza da spettacolari wuxiapian (film di cappa e spada) che hanno abbandonato il realismo della rappresentazione in favore dell'estetica digitale. "Le evoluzioni incredibili nei wuxiapian di Zhang Yimou, le coreografie funamboliche di Yuen Woo-ping (che ha lavorato anche in Matrix e Kill Bill), le acrobazie di Jet Li: tutto questo non è vero kung fu, bensì wushu, ovvero una disciplina del tutto diversa, più simile a una sorta di balletto, anche se spesso gli spettatori occidentali non sono in grado di distinguerle tra loro".
E allora qual è l'artista marziale contemporaneo che apprezza di più? "Senza dubbio Tony Jaa, la star tailandese protagonista di Ong Bak e The Protector. In Tailandia si fa ancora cinema d'arti marziali come un tempo perché il budget dei film è molto limitato e i realizzatori, non potendosi permettere costosi effetti speciali, devono riporre esclusivo affidamento sulle capacità fisiche degli atleti. Guardo questi film pensando con grande nostalgia alle vecchie produzioni genuine di Hong Kong...". Nostalgia anche del personaggio del monaco calvo che lo ha accompagnato in innumerevoli film? "La testa rasata" - ridacchia Liu - "è diventata ormai parte della mia identità, tanto che se indosso una parrucca a Hong Kong nessuno mi riconosce! Anche se ai primi tempi era un problema perché mia moglie non gradiva il mio look glabro e mi costringeva a mettere qualcosa sul capo nell'intimità... Ma adesso tutti dicono che sono molto più sexy così!".