Tra le particolarità della visione artistica di Antonio Monda per la Festa del Cinema di Roma c'è anche la volontà di invitare ospiti non strettamente legati al grande schermo, per parlare di arte e cultura in modo più trasversale. Per l'edizione 2018 tale ruolo è toccato allo scrittore Jonathan Safran Foer, noto per i romanzi Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino, entrambi arrivati al cinema (rispettivamente con la regia di Liev Schreiber e Stephen Daldry). Prima di passare all'Incontro Ravvicinato vero e proprio, che ha seguito la struttura classica di sei spezzoni scelti e commentati dal diretto interessato, Safran Foer ha spiegato il motivo principale della sua presenza ai limiti del fugace (24 ore, viaggio incluso) a Roma: "Conosco Antonio Monda da più di vent'anni. È molto difficile dirgli di no."
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La prima volta al cinema con Spielberg
Si inizia con la domanda inevitabile: quali sono i suoi primi ricordi di esperienze cinematografiche? "Mi vengono in mente tre cose", dice Safran Foer prima di elencarle con un pizzico di ironia. "Un film TV, Radici, che ho visto seduto sul pavimento della camera dei miei, mi ricordo che c'erano donne a petto nudo; un altro film TV, Fuga da Sobibor, sulla Shoah, e se non sbaglio anche lì c'erano donne col petto nudo; e la prima esperienza cinematografica, che fu E.T. L'Extraterrestre. Più che il film ricordo l'esperienza della sala, l'Uptown a Washington D.C., uno dei cinema più belli in America. Mi ricordo persino dove ero seduto, e chi era con me. La scena delle biciclette mi è rimasta impressa, perché io e i miei amici facevamo cose simili." Si definisce un fan di Steven Spielberg? "Sì. Fa delle scelte discutibili, ma tutto quello che fa ha un tocco artistico innegabile."
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Da lì si passa alla prima clip, la sequenza de L'uomo dei sogni dove Kevin Costner dialoga con il fantasma del padre. Un film di culto in America, ma Safran Foer non ne è propriamente un ammiratore: "È un po' imbarazzante come scelta, perché contiene dei momenti troppo sdolcinati, ma all'epoca, pur non capendolo completamente, lo trovai molto commovente. Lo vidi all'Uptown, con mio padre, eravamo solo io e lui. Iniziò a piangere durante quella sequenza, ed è l'unica volta che l'ho visto completamente in lacrime. L'arte può fare molte cose, sbloccare delle cose inattese. Forse non avrei scelto quel film se non l'avessi visto in quelle circostanze. L'ho rivisto e non mi è piaciuto, è un po' troppo lungo." È capitato l'inverso, rivalutare un autore o un regista non apprezzato? "Raramente. Succede più spesso con l'arte visiva. Rileggere un romanzo è più impegnativo, solitamente richiede almeno un paio di giorni."
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Realtà e finzione
Il secondo spezzone scelto dallo scrittore è tratto da After life di Hirokazu Koreeda, film dove i morti hanno una settimana di tempo per scegliere un ricordo da preservare in eterno. "Ci sono scene in cui i personaggi ricreano momenti delle loro vite passate, e mi piace il fatto che quelle ricostruzioni abbiano dei difetti, sembrano uno spettacolo liceale", spiega Safran Foer. "È un mio feticcio estetico, ma non so spiegare bene il motivo. Adoro il film Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, dove si affrontano temi simili." La terza clip proviene invece da Stories We Tell, ibrido di documentario e finzione firmato da Sarah Polley: "Si ricollega al discorso di prima, sul tentativo di ricreare qualcosa e l'esibizione del processo creativo. Non posso distinguere tra narrativa e non-fiction, perché scegliendone uno non vorrei dover rinunciare all'altro. Ci sono anche soggetti che non si prestano a nessuno dei due. Quando scrivo, mi piace raccontare la realtà, e arricchire le conoscenze del lettore, ma so che non cambierò ciò in cui credere. Credere e sapere sono due cose diverse. Lo scopo del mio lavoro è cambiare me stesso, e spero anche di poter colpire emotivamente gli altri. La differenza principale tra narrativa e non-fiction è che nel secondo caso so cosa sto pensando."
Herzog, regista difficile
La quarta clip proviene dal documentario Happy People: A Year in the Taiga, co-diretto da Werner Herzog. Monda chiede a Safran Foer di esprimersi sul concetto della natura crudele. La risposta: "È l'uomo a essere crudele, non la natura. La crudeltà per me richiede un'intenzione. La natura è violenta, non crudele." Per quanto riguarda l'acclamato regista tedesco, lo scrittore non è veramente un fan delle sue opere: "Ho un rapporto di amore-odio con i film di Herzog: amo gli argomenti, ma non mi piace il suo stile, soprattutto quando lui appare sullo schermo. Lo trovo disonesto e manipolatore. Di questo film invece mi piace la sua purezza, con sequenze che durano più del dovuto. Questo c'è anche nelle commedie. Avete presente I Simpson? C'è una scena dove Telespalla Bob continua a calpestare dei rastrelli, una trentina. All'inizio fa ridere, poi diventa ripetitivo, ridicolo, e alla fine è talmente ridicolo che fa ridere. I film sono in grado di manipolare molto bene, e non è per forza negativo. Se la manipolazione agevola la fruizione del film, va benissimo." Il discorso termina con una riflessione sui tempi in cui viviamo: "Questo film mi fa sentire in pace con me stesso, come quando sono seduto davanti al camino. Viviamo in un'epoca di alienazione, con strumenti che non capiamo. Io sono attratto da storie ed elementi che capisco. Credo che le persone apprezzino di più i suoni della natura al giorno d'oggi, per esempio."
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Arte e personalità
Il quinto spezzone è tratto da un altro documentario, Rivers and Tides, ritratto dello scultore Andy Goldsworthy: "Andy lavora a stretto contatto con la natura. Quel film mi piace perché mostra la normalità della sua vita quotidiana. Mi piace lo spirito con cui realizza le sue opere: non si focalizza sulle tempistiche, sui costi. Lo fa per se stesso, che è una cosa che le persone fanno molto di rado oggi." Da lì parte una discussione più ampia sulle arti visive nella società odierna, e sulla loro fruizione. "Non mi intendo molto di arte moderna", ammette Safran Foer. "I prezzi sono talmente alti che è difficile farla apprezzare alle persone giuste, non è un campo molto democratico. La letteratura invece è un'arte populista. L'arte può essere popolare, e la letteratura può essere d'avanguardia, ma in genere è l'inverso. Il cinema è forse troppo democratico, perché nel tentativo di accontentare tutti si fa ricorso al minimo comune denominatore, ed è un processo piuttosto collettivo. Ho amici registi e sceneggiatori, ma conosco pochissimi cineasti in grado di dire che quello che vediamo sullo schermo è puramente loro."
Tra quei pochissimi c'è sicuramente Wes Anderson, il cui secondo lungometraggio Rushmore è la fonte dell'ultima clip dell'incontro. "Adoro quel film, sin dalla prima visione, quando non ero ancora uno scrittore. Il cinema di Wes Anderson è affascinante perché, che piaccia o meno, lui ha palesemente una propria visione. Lo invidio perché vorrei tanto realizzare qualcosa che sia l'espressione pura della mia visione, come quel film. Niente in Rushmore è casuale, Anderson pianifica tutto nei minimi dettagli." Per chiudere la conversazione, Monda fa una domanda provocatoria: la letteratura è superiore al cinema? "Sarebbe come chiedermi se tua moglie è superiore alla mia compagna. Per me è una domanda priva di senso. Il cinema è meglio per certe cose, la letteratura per altre. La vastità rende meglio sullo schermo, l'intimità sulla pagina scritta." Nessuna preferenza, quindi, tra le due forme d'arte, anche come fruitore o autore? "Se mi chiedi di scegliere tra leggere un libro e vedere un film, non ti so rispondere. Però tra fare il regista e il romanziere, scelgo la seconda. Non sono diventato scrittore per caso, ho scelto di farlo."