Succede per la prima volta, in questa settantunesima edizione, che la Mostra del Cinema di Venezia assegni il Leone d'Oro alla Carriera a un documentarista. L'evento in sé meriterebbe (e forse merita) qualche riflessione aggiuntiva, se non fosse che tale etichetta va decisamente stretta a un cineasta come Frederick Wiseman: il regista americano, infatti, rientra senz'altro tra i grandi del cinema tout court, e un riconoscimento del genere, pur dovuto, è semmai tardivo.
Che il documentario (o cinema verità, o comunque lo si voglia chiamare) abbia piena dignità estetica ed artistica, e la considerazione che il confine tra documentarismo e fiction sia tutt'altro che netto, sono fatti noti da sempre; la storia del cinema, in questo, aiuta. Uno sguardo alla carriera, e all'opera, di autori come Wiseman, non fa che ribadire (in modo comunque salutare) tali ovvi concetti. Il maestro statunitense, presente al Lido per ritirare il premio, ha incontrato i giornalisti in una breve ma stimolante conferenza stampa, in cui ha toccato vari aspetti del suo rapporto col cinema, con l'arte in genere, e ha parlato dei suoi futuri progetti.
Il documentario come narrazione
"I documentari sono film a tutti gli effetti", ha esordito Wiseman. "In passato si pensava che un documentario dovesse parlare di medicina, di come farti stare bene, o cose del genere: invece, la realtà è che un documentario può essere allegro, triste, tragico, come qualsiasi opera drammatica. Il mio modello è sempre stata la fiction, in particolare quella letteraria". Il regista ha poi approfondito proprio il suo rapporto con la letteratura: "Ho cominciato a leggere a 5 anni, e tuttora leggo tantissimo; e una parte di ciò che leggo cerco di trasferirla nei miei film. Cerco di fare film in cui fornisco più informazioni possibili, in modo che chi vede capisca cosa sta accadendo e possa farsi un'opinione. Non credo che la mia visione delle cose possa cambiare il mondo: mi interessa semmai esplorare la complessità di ciò che viviamo. Voglio fare film che siano un po' come dei romanzi".
Qualcuno ha chiesto al regista se l'etichetta di "miglior documentarista del mondo", in questo senso, non lo abbia un po' stancato, e non gli vada un po' stretta. "Come farei a essere stanco di sentir dire una cosa del genere? Certo, non credo ci sia una distinzione vera tra documentario e fiction; almeno, non una distinzione che si possa riassumere in poche parole. Mi piace fare film che abbiano una struttura drammatica, che si occupino di aspetti sottili del comportamento umano. La tecnica per girare un documentario è diversa da quella che serve per un film di finzione, ma il concetto è lo stesso. Non mi piacciono i film didattici, e detesto i documentari a scopo educativo. Non posso prendermi il merito di ciò che mostro: la mia bravura, se di bravura si può parlare, sta semmai nel saperlo rendere."
Gli esordi di una lunga carriera
"Ho preso per la prima volta in mano una macchina da presa a Parigi, a metà anni '50", ha proseguito Wiseman rievocando i suoi esordi. "Giravo film in super 8. Allora ero iscritto a Legge, e odiavo i miei studi: per tre anni non ho fatto che leggere romanzi, invece di leggere i libri universitari, e alla fine ho pensato che avrei dovuto fare ciò che mi piaceva. Rispetto ai miei esordi, il modo di fare documentari non è poi cambiato molto: è diversa solo l'attrezzatura, ora si usa il montaggio digitale, ma per il resto non c'è nessuna differenza. Comunque, non ho mai fatto parte di nessun gruppo, ho sempre lavorato isolato dagli altri cineasti: la magggior parte dei miei colleghi era a New York mentre io ero a Boston. Fondamentalmente, sono un solitario."
Il regista si è poi soffermato sugli aspetti economici del suo lavoro: "Ora come allora, è difficile trovare soldi per finanziare un documentario. Io stesso mi occupo anche della distribuzione dei miei film, perché pare non ci siano mai soldi da parte degli altri. In passato sono stato anche fregato da un distributore: per la mia limitata esperienza, quando si affida la distribuzione a qualcun altro, questo succede praticamente sempre. Se invece della distribuzione mi occupo io, con un margine del 100% non ho niente da perdere. I miei lavori hanno comunque una distribuzione ampia, che ora coinvolge anche Internet".
Il significato di ciò che si mostra
Wiseman ha poi specificato che il suo stato di "isolamento" non è comunque condizione sufficiente per esprimersi al meglio: "Per fare dei buoni film non ci si deve solo isolare. Piuttosto, è importante riflettere su ciò che si è fatto, analizzarne la ratio, e in questo è fondamentale la sala di montaggio. In un documentario, ci si deve chiedere perché le persone hanno fatto ciò che hanno fatto, ci si deve interrogare sul significato. L'80% del documentario non è tecnica, ma comprensione del comportamento. Il film emerge quando le due componenti si intersecano."
Una domanda ha riguardato poi il nuovo rapporto che le persone hanno con le immagini, nell'era di Youtube, e la recente mostra di atrocità e decapitazioni commesse dagli estremisti dell'Isis. "Ne sono preoccupato, e non vedo come un adulto con una minima intelligenza possa non esserlo", ha detto il regista. "Non navigo molto in internet, ma leggo i giornali, forse a causa della mia età. Di fronte ad eventi del genere, si cerca di fare quel che si può."
Wiseman ha poi risposto a una considerazione secondo la quale, negli anni, il suo modo di girare sarebbe cambiato poco. "Forse questo succede perché non ho imparato niente, negli anni!", ha scherzato il regista. "E' vero che la tecnica è la stessa, ma mi piace pensare di averla anche migliorata. Un punto fermo, comunque, è che le interviste e l'oversound interferiscono, a mio avviso: io voglio che chi guarda abbia la sensazione di essere presente sul luogo, così come lo sono io. Non dico mai, come un narratore, ciò che penso: piuttosto, mi metto nella posizione di ascoltare le persone, e fornisco loro tutte le informazioni per farsi un'opinione." Un'ultima battuta ha riguardato poi gli imminenti progetti del regista. "Ora ho appena finito di girare un film su un quartiere di New York, il Queens", ha spiegato Wiseman. "Lì ci sono quaranta edifici in cui si parlano un'infinità di lingue: siamo un po' nella stessa situazione del diciannovesimo secolo, visto che ora a New York è arrivata una nuova generazione di migranti. Credo che questo stia succedendo in tutte le grandi città del mondo. Questo è il nuovo volto dell'America, anche se ciò ancora non è stato riconosciuto. Poi, sto preparando una nuova versione del mio primo film, Titicut Follies: vorrei farne un balletto, e proprio a questo scopo sto lavorando con un coreografo. Quello del balletto è un tipo di spettacolo che mi ha sempre interessato. Però, lo farò solo se potrò essere il primo ballerino!"