Il corpo di Kaspar
Un'isola fuori dal mondo, circondata da un mare sconfinato. Una micro-comunità di sei persone, animata da conflitti malgrado l'esiguo numero dei suoi componenti. Un corpo (letteralmente) estraneo, portato con sé dal mare. Un nome evocativo, Kaspar Hauser, per un'identità sessuale ambigua. Movenze corporee ritmiche, elettroniche come i suoni di cui l'essere si nutre, e poche parole per comunicare all'esterno il suo mondo. Un re, un messia, o forse un impostore? La comunità, ancora una volta, si divide. Ma, comunque lo si voglia considerare, il passaggio di Kaspar non resterà senza conseguenze.
Nell'affrontare una vicenda controversa, affascinante, tuttora fonte di ipotesi e congetture come quella del giovane Kaspar Hauser, Davide Manuli sceglie la via dell'astrattezza. Il suo La leggenda di Kaspar Hauser è complementare al precedente Beket: stessa ambientazione, in una Sardegna privata di punti di riferimento, stesso bianco e nero dalle valenze simboliche, stesso lavoro sugli archetipi. L'herzoghiano L'enigma di Kaspar Hauser è solo un ricordo: optando per la rappresentazione della vicenda in un non-luogo e in un non-tempo come quelli che vediamo qui, la sceneggiatura toglie ad essa ogni determinazione storica. Questa storia (o meglio leggenda) potrebbe avvenire ovunque e in ogni tempo.
E' quella della comunicazione, e della sua assenza, l'ottica attraverso la quale Manuli rilegge la vicenda. Comunicazione che, nel contesto chiuso e autoreferenziale dell'isola, si esplicita solo attraverso un gioco di opposizioni: Sceriffo/Pusher, Veggente/Granduchessa, Prete/Drago. Ogni personaggio ha la sua nemesi, o se si vuole il suo specchio (letterale nel caso di un Vincent Gallo che interpreta due ruoli) che lo sostanzia e gli dà legittimità. L'arrivo di Kaspar sconvolge l'equilibrio (anche numerico) basato sulla mera opposizione, porta il contatto con l'alterità, rompe un cerchio. Alterità per sua natura incomprensibile, fuori dai modelli stereotipati che caratterizzano la vita dell'isola, condannata di suo a un assenza di contatto: eppure, non casuale nel suo concretizzarsi improvviso, destinata ad essere riempita di senso, a farsi essa stessa segno e strumento comunicativo. L'analfabeta Kaspar, le sue movenze scomposte, le sue poche parole mancanti (ancora) di senso diventano l'unico, potenziale mezzo di contatto della comunità con l'esterno: l'intervento dello Sceriffo, la trasmissione del linguaggio (quello musicale) più affine alla personalità del giovane, consentono la semiosi umana del personaggio. La sua doppia natura astratta e comunicativa, "divina" e terrena, ne svelano il carattere messianico, frutto dell'ottica steineriana del regista. La non riuscita del suo compito, e la sua inevitabile fine, non impediranno che il suo passaggio sia stato gravido di conseguenze, indelebili e durature. Esteticamente, La leggenda di Kaspar Hauser ha un fascino indiscutibile. Il bianco e nero scelto dal regista, e la grande cura degli ambienti, accentuano l'astrattezza, e insieme l'universalità, della lettura data alla vicenda. L'uso della pellicola, e la sempre presente grana del quadro, avvicinano la fotografia a quel mood godardiano, da cinema naturalmente libero e sperimentale, in cui Manuli voleva avvolgere il progetto. La suggestione da esso emanata, "ritmica" e fisica oltre che puramente cerebrale, è merito anche dei suoni elettronici di Vitalic; perfettamente adeguati alle immagini, ma anche alla singolare reinterpretazione del personaggio. Nonostante l'assenza (orgogliosa, dichiarata) di concessioni e punti di riferimento per lo spettatore, la presenza di volti noti aiuta senz'altro l'ingresso nella storia, l'approccio alle sue simbologie, la decodifica del suo mondo: a uno straordinario Vincent Gallo, in un doppio ruolo la cui dialettica è riflessa anche nella quantità delle parole pronunciate, si sommano le apparizioni di Claudia Gerini e soprattutto di Fabrizio Gifuni; quest'ultimo si prodiga in un monologo (opera dello scrittore Giuseppe Genna) in cui c'è molto del senso del film. Su tutto, il Kaspar Hauser di Silvia Calderoni, notevole attrice teatrale che ha nell'ambiguità sessuale la sua più potente arma: magnetica, ipnotica, un corpo che è tabula rasa, con quell'unico nome tracciato sulla pelle, eppure, di suo, così comunicativo. La rischiosa, ma felice scelta del regista nell'affidarle il ruolo principale, sostanzia un film che riesce ad arrivare allo spettatore per vie traverse; attraverso la suggestione e la stimolazione costante del senso estetico, più che con la forza immediata delle immagini. Ma con la capacità, non da tutti, di sedimentarsi nella memoria, continuando a lavorarvi e a richiamare nuove visioni e possibili letture.
Movieplayer.it
4.0/5