Recensione Water (2005)

Il lirismo delle immagini della Mehta non distoglie dalla tragedia di una situazione vergognosa che ha più colpe.

Widow in the Water

Tradizione e fede fanno spesso rima con ignoranza. Non ci si stupisce più di quanto male possano fare le religioni, i loro testi intoccabili che sanno dettare regole sacre ed umilianti, i loro riti più brutali che permettono violenze ed ingiustizie, coprendo gli abusi con quel velo di ignoranza che torna sempre utile quando si vogliono negare o rimandare libertà e indipendenza. E la vittima privilegiata delle prepotenze dell'essere umano mosso dalla religione o dalle sue molteplici declinazioni è sempre la donna, nei paesi più invisibili del Terzo Mondo come nei paradisi capitalistici dell'Occidente, perché l'uomo ha sempre il virile pallino del potere e far risuonare la propria voce e i colpi di frusta contro chi non è messo in condizione di vivere alla pari è pur sempre qualcosa. Dopo Fire e Earth, Deepa Mehta conclude con Water la sua trilogia degli elementi (il suo cinema resterà senz'aria, perché forse in un mondo ancora così ingiusto c'è poca voglia di respirare) con un racconto di oppressione femminile ambientato nell'India del 1938, quella colonizzata dagli inglesi e risvegliata dalla voce di Gandhi, ma di grande attualità, in una società dove la donna è ancora costretta a lottare per vedere riconosciuti i propri diritti.

Water è la storia di Chuyia, una bambina sposa e vedova a otto anni senza neppure accorgersene, che perde in una notte i suoi vestiti colorati, i braccialetti e i lunghi capelli neri. Con essi va via anche l'ultima illusione di libertà che, in un paese che costringe le sue piccole creature a dover donare metà di se stesse a uomini sconosciuti, non ha in fondo alcuna ragione d'esistere. Per la religione indù una vedova è costretta a seguire nella morte il proprio marito, o a morire in terra, confinata in un istituto, col capo rasato, i sari bianchi e il sesso dimenticato, tra altre donne senza più speranza, a lavarsi quotidianamente nelle acque del fiume Gange per purificarsi dal peccato di essere sopravvissute al proprio marito. Ashram come veri e propri ospizi-prigione per vedove di tutte le età, dalle bambine alle ottantenni, costrette ai margini del mondo e a una vita di privazioni da trascorrere in assoluta povertà, anche se l'ipocrisia e il bisogno di sopravvivenza concedono a una di loro il tragico lusso della prostituzione. E sullo sfondo di queste piccole storie di ordinaria ingiustizia, c'è quella di un paese sotto il dominio britannico, che comincia a legare il proprio sogno d'indipendenza alla figura del Mahatma Gandhi, la voce dei deboli e la speranza della libertà senza violenza.

Il sentimento che domina le donne dell'ashram è la rassegnazione e anche l'arrivo di una bambina che grida, si ribella e prova strenuamente a non spegnere il proprio sorriso può essere visto solo come l'ennesimo destino infame già segnato. Eppure il suo divincolarsi dalle braccia della regina comandante, il suo rubar dolcetti per regalare un attimo di felicità alla vecchietta storpia alla continua "ricerca del tempo perduto", il suo far da tramite tra un giovane idealista innamorato e una splendida vedova con chioma ancora fluente per via del suo triste privilegio, riesce ad aprire piccole crepe, a far dischiudere gli occhi su una condizione che non può essere più accettata passivamente. Il lirismo delle immagini della Mehta non distoglie dalla tragedia di una situazione vergognosa che ha più colpe. La religione stavolta sembra più una scusa che torna buona per sbarazzarsi di queste donne che si credono morte per metà e ormai solo un peso che grava sulle famiglie. Allontanarle e confinarle nell'oblio di queste case della vedovanza risulta essere allora la soluzione a problemi materiali molto più immediati. Water è un film che fa male, come facevano male, seppure con diversa intensità, Magdalene di Peter Mullan (straziante, un vero e proprio horror sulla disumanità di certe pericolose ipocrisie cattoliche) e l'incantevole Moolaadé di Ousmane Sembene, opere potenti di donne emarginate, oppresse, violentate nel fisico e nell'animo. Qui la fine è un treno che parte carico di speranza, quando però sembra ormai troppo tardi, e l'innocenza è già stata distrutta, la bellezza della vita annientata dalla crudeltà umana. La Mehta sa mantenersi in equilibrio sul filo del melodramma, senza mai far risultare il suo racconto stucchevole o gratuito, e ipnotica è la fotografia di Giles Nuttgens, con un filtro azzurro che tramuta il film in un'opera quasi liquida, che non scivola via, ma si lascia assorbire e ci fa sentire tutti un po' colpevoli.