Recensione The Sky Crawlers (2008)

Il Maestro dell'animazione a cui dobbiamo capolavori come Ghost in the Shell ingigantisce, come altri suoi colleghi nipponici in direzioni differenti, i limiti del cinema disegnato e non tanto verso una sempre più estrema elaborazione grafica.

Un gioco da bambini

E se la morte non esistesse? The Sky Crawlers, il nuovo capolavoro d'animazione firmato da Mamoru Oshii, proietta lo spettatore in un futuro anteriore in cui la guerra non è altro che uno spettacolo mediatico architettato dalle multinazionali, un circo necessario per mantenere la pace finalmente conquistata sulla Terra. Interpreti automi di questo teatro bellico sono i Kildren, eterni bambini addestrati al conflitto aereo che non conoscono il significato della morte. È sempre l'opposto dunque a fornire un senso a quello che ci circonda, se l'uomo non è in grado di riconoscere la pace in assenza di una guerra che manifesti la propria brutalità, allo stesso modo gli adolescenti guerrieri del film assaporano le vibrazioni della vita solo spiccando il volo verso la battaglia che potrebbe ucciderli. In questa direzione la regia di Oshii tratteggia i confini di un quotidiano congelato dall'apatia, in cui oggetti e scenari sono descritti con realismo iperbolico così come lo show incalzante degli aeroplani durante gli scontri, e dove invece l'essere umano - sia esso un clone aviatore o un incantato spettatore - non è altro che un giocattolino ammaestrato al ruolo, ridotto ad una macchia di colore dai contorni goffi.

Il Maestro dell'animazione a cui dobbiamo capolavori come Ghost in the Shell ingigantisce, come altri suoi colleghi nipponici in direzioni - diametralmente - differenti, i limiti del cinema disegnato e non tanto verso una sempre più estrema elaborazione grafica, che è invece interesse fondamentale più delle produzioni occidentali. La sua trasposizione della graphic novel firmata da Hiroshi Mori gode infatti di un'inusuale e straordinaria impronta cinematografica, sorretta da una struttura circolare dall'incedere atono. Quando i due protagonisti Yuichi e Suito si incontrano, lui pilota provetto dal passato confuso appena trasferito alla nuova base e lei ufficiale dall'atteggiamento distaccato e misterioso, un legame sotterraneo che li legherebbe sembra prendere forma. Cresce silenzioso il film e uno spiraglio di luce comincia ad abbozzare i contorni di un futuro fino a quel momento indissolubilmente legato alla ritmica di un'interminabile ripetizione dell'oggi, ma nemmeno il tentativo di deviazione dal copione, lo scardinamento di un dettaglio sembrano poter interrompere questa condanna all'eterno ritorno. La ritualità priva di esigenza nelle azioni che accompagna l'esistenza dei Kildren divora ogni drammatico tentativo di verità, anche quando il nemico ha finalmente un nome ed un'identità.

Il genio di Oshii è qui al servizio di una desolante e cupa riflessione non solo sulla guerra e il suo (non)senso, o sulla violenza mediatica che ad ogni occasione azzarda oltre in direzione della spettacolarizzazione di drammi (in Sky Crawlers meravigliosamente sottolineata dai commenti musicali di Kenji Kawai) di cui l'uomo diventa sempre più facilmente inerte spettatore. La rarefazione dell'azione consente al regista di indugiare su dettagli scenici che sottendono le trame di legami privi di calore, un'analisi dai caratteri metafisici sull'essere e il non essere quando i ricordi, l'infanzia e la libertà di pensiero vengono negati. Il tempo futuristico in cui è ambientato il film dunque, assume sempre più evidentemente le fattezze mostruose del presente, e mentre appaiono immediate alcune assonanze a Blade Runner nell'analogo ritratto di cloni e replicanti, si fanno altrettanto interessanti ed inquietanti i legami con The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. La guerra non solo come routine essenziale e ciclica, ma come vera e propria droga dell'uomo. Due Film vivi della medesima stratificazione psicologica, eccezionali e troppo poco apprezzati entrambi, purtroppo.