Recensione Un giorno perfetto (2008)

Ozpetek lavora con impegno e, a tratti, quella stessa passione che permeava le sue opere precedenti si fa tangibile, eppure più di una volta il meccanismo si inceppa.

Un film imperfetto

Gli occhi che sorridono di Ferzan Ozpetek sembrano denunciare una fiducia incrollabile nel suo ultimo lavoro, Un giorno perfetto, in concorso alla sessantacinquesima mostra del cinema di Venezia e, quasi in contemporanea, in uscita nelle sale italiane il 5 settembre prossimo. Una pellicola che, nella genesi, si distacca dalla precedente produzione del regista italo-turco. Per la prima volta, infatti, Ozpetek accetta di portare sullo schermo una storia non scritta da lui, ma ispirata a un testo preesistente, l'omonimo romanzo corale di Melania Mazzucco, su commissione di Domenico Procacci. I teorici del cinema sostengono da sempre che adattare significa principalmente tradire. Nello scrivere la sceneggiatura di Un giorno perfetto, Ozpetek e Sandro Petraglia non se lo sono fatto ripetere due volte inserendo cambiamenti più o meno sostanziali rispetto al romanzo, trasformando un giovane docente omosessuale in una matura e comprensiva professoressa (interpretata da Monica Guerritore), decostruendo un bel personaggio quale era Aris Fioravanti, graffitaro ribelle innamorato della giovane moglie del padre, che nel film si riduce a un'anonima comparsa, e semplificando eccessivamente la psiche dei caratteri.

Ozpetek lavora con impegno e, a tratti, quella stessa passione che permeava le sue opere precedenti si fa tangibile, eppure più di una volta il meccanismo si inceppa. La necessità di personalizzare il racconto, rendendolo indipendente dal romanzo d'origine e capace di sostenersi autonomamente a livello narrativo, spinge il regista de Le fate ignoranti e La finestra di fronte a inserire qui e là piccoli tocchi di originalità che esulano dall'atmosfera generale del film, richiamando piuttosto il calore e il colore che sono marca tipica del suo cinema più tradizionale. Il ballo del piccolo Kevin, i murales dedicati a Maja, il gelato che l'ignara Emma si concede alla fine del film e i tocchi di folclore legati al personaggio interpretato da Stefania Sandrelli, reinventato appositamente pensando al brio dell'attrice toscana, creano uno sfasamento rispetto al dramma che matura nelle ventiquattro ore precedenti l'imprevedibile epilogo. Da una parte abbiamo, quindi, la cronaca cupissima della crisi di una famiglia in frantumi, famiglia composta dai coniugi Emma e Antonio, splendidamente interpretati da Valerio Mastandrea e Isabella Ferrari, protagonisti di una delle scene più discusse del film a causa della violenza in essa contenuta in essa, e dall'altra una miriade di personaggi che appaiono più o meno sporadicamente e di cui sappiamo poco o niente.

Il tentativo di contrapporre alla violenta separazione tra i popolani Emma e Antonio la crisi matrimoniale molto più gelida e controllata tra l'onorevole Fioravanti e la giovane borghese Maja riesce solo in parte, dati gli scarsi elementi che vengono forniti allo spettatore e lo scarno approfondimento psicologico dei personaggi. Ozpetek sembra preferire che a catalizzare l'attenzione del pubblico siano i complessi caratteri di Antonio, poliziotto violento e ossessivo sulla carta lontanissimo dal suo interprete Valerio Mastandrea, che dimostra di sapersi staccare dal cliché dell'eterno simpatico sfigato fornendo qui una delle sue migliori interpretazioni, ed Emma, donna segnata dalla vita, ma ancora in cerca di riscatto, provocante e sensuale come sa essere Isabella Ferrari. Intorno ai due si muove un andirivieni di personaggi e situazioni che sbiadiscono nei contorni di una Roma cupa e fumosa, testimone silenziosa della tragedia imminente. Il tessuto narrativo principale è costellato di camei di interpreti di spessore, come l'attrice-feticcio di Ozpetek Serra Yilmaz, Stefania Sandrelli e Angela Finocchiaro, personaggio angelico-salvifico la funzione è, in realtà, piuttosto nebulosa.

Alla difficoltà di amalgamare insieme tutti gli ingredienti che compongono questa complessa vicenda si aggiungono le ingenuità contenute nella sceneggiatura che sbilanciano l'andamento del film, creando un'alternanza tra scene perfettamente riuscite ad altre segnate da pesanti cadute di tono. Nel complesso finale, dove Ozpetek si produce negli stilemi tipici della sua regia forzando sul pedale del sentimento ed esplorando accuratamente i corpi e i volti dei suoi personaggi, la musica di Andrea Guerra si fa talmente invadente da risultare quasi fastidiosa. Molti parleranno di tipici difetti del cinema italiano, noi ci rammarichiamo per il passo falso di un regista capace di raccontare storie di straordinaria quotidianità con un tocco delicato e personale che, stavolta, si è fatto prendere la mano da una materia che probabilmente non gli apparteneva.

Movieplayer.it

2.0/5