Recensione Chiamata senza risposta (2008)

L'enigmaticità del prototipo, le ellissi narrative e la voluta incompiutezza della vicenda messa in scena da Miike lasciano il posto ad una narrazione verbosa quanto scontata in ogni suo snodo, in cui le zone d'ombra lasciate dall'originale vengono accuratamente colmate.

Spaventi telefonati

E' difficile parlare, nel 2008, dell'ennesimo remake di un horror orientale. E' difficile perché su operazioni di questo genere è stato ormai detto e scritto tanto, forse troppo; ed è innegabile che qualsiasi approccio sanamente critico a queste pellicole corra il forte rischio di cadere nel già detto. D'altronde, quest'ultimo è uno scrupolo che registi come Eric Valette (giovane cineasta francese, già apprezzato autore di corti) non sembrano farsi minimamente nel porre in essere operazioni di cui oramai sfugge il senso anche commerciale. L'onda lunga della moda del J-Horror (e delle ghost story orientali in genere) si è ormai esaurita da tempo, e filoni cinematografici un tempo venati di esotico, tali da stimolare la (giusta) curiosità del cinefilo più attento, sono ormai alla portata di tutti. Chi può essere davvero interessato o incuriosito, in un quadro del genere, da un film come questo Chiamata senza risposta?

Le considerazioni fatte sopra, che potrebbero essere tranquillamente estese a rifacimenti come il recente The Eye o all'ennesima, esausta riproposizione del rancore di Takashi Shimizu, acquistano un valore ancora maggiore se si pensa alle peculiarità del modello originale. Chakushin Ari, infatti (da noi conosciuto come The Call - Non rispondere) occupa un posto tutto particolare nel florido filone di cui fa parte: al regista Takashi Miike, infatti, fu chiesto di girare un film che mettesse la parola fine alla "ringumania", a quella lunga serie di cloni, sottocloni e variazioni sul tema che, tra la fine del decennio scorso e l'inizio di questo, fecero seguito alla fortunata ghost story diretta da Hideo Nakata. La scelta di Miike (regista borderline, non a caso poco o per nulla visto nel nostro paese, analogamente all'altrettanto "ostico" Kiyoshi Kurosawa) si è rivelata forse la più azzeccata per portare a termine un'operazione del genere: The Call era infatti omaggio filologico e decostruzione al tempo stesso, un film che inseriva una componente anarchica e destabilizzante (tipica del suo autore) in una collaudata struttura di genere.

A cosa può assomigliare, il remake (arrivato cinque anni dopo) di un film del genere? E' presto detto: all'ennesimo pop-corn horror, diretto in modo anonimo e senza verve, minuziosamente e pedantemente spiegato in ogni suo passaggio. E' proprio questa, infatti, una delle caratteristiche che più irritano di questa pellicola, al punto da far quasi dimenticare la svogliatezza della regia: l'enigmaticità del prototipo, le ellissi narrative e la voluta incompiutezza della vicenda messa in scena da Miike lasciano il posto ad una narrazione verbosa quanto scontata in ogni suo snodo, in cui le zone d'ombra lasciate dall'originale vengono accuratamente e inopportunamente colmate, e sempre nel modo più banale. La messa in scena è scolastica e poco attraente, con una regia che fa quasi rivalutare quella di un altro remake mediocre come Pulse (che poteva contare almeno su un discreto senso del ritmo e su una gestione abbastanza abile degli - abusati - effetti-shock).

Si potrebbe parlare poi della qualità del tutto mediocre della recitazione (il volto di cera di Edward Burns quando gli annunciano, nei minuti iniziali, la morte della sorella, è più esplicito di mille parole a riguardo) ma forse non ha neanche molto senso accanirsi su un film già di per se senza grandi motivi di interesse. Ci piacerebbe solo che, analogamente a quanto (almeno nelle intenzioni) era destinato a fare l'originale, questo film mettesse finalmente la parola fine ai remake degli horror asiatici. Ma, chissà perché, l'impressione è che questa resterà solo una pia illusione.

Movieplayer.it

2.0/5