Recensione Prey for Rock & Roll (2003)

Il regista, pur insistendo sul deprimente ambiente in cui le Clam Dandy vivono, non spinge sul pedale dell'acceleratore quando necessario, consegnandoci una pellicola continuamente farcita di sequenze che, troncate improvvisamente, preparano lo spettatore ad impressionanti conclusioni che in realtà non arrivano mai.

Sesso, droga e... Gina Gershon

Tutto è iniziato quando la cantante Cheri Lovedog, fondatrice e leader, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, della punk rock band Lovedog, rivoltasi, in cerca di risposte alle molte domande esistenziali riguardanti gli ostacoli da superare nella corsa al successo, alla psicologa Sylvia Brown, ha capito che l'unica cosa che doveva fare era scrivere. Così, trasferitasi a Santa Cruz, si è dedicata alla stesura del testo teatrale Prey for rock & roll ed ha aperto un negozio di tatuaggi. Il caso ha voluto che un bel giorno Robin Whitehouse, direttore artistico della compagnia teatrale newyorkese FatChance Production, entrasse casualmente nel suo negozio, così, Cheri, senza perdere tempo, gli propose lo script. E come in tutte le belle favole moderne americane che si rispettino, Whitehouse lo ha apprezzato e, nel luglio del 2000, Prey for rock & roll, oltre a debuttare al New York CBGB, mitico punk-rock club in cui nacquero storiche band quali Blondie, Talking Heads e Ramones, ha riscosso il parere positivo della critica, tanto che il banchiere Donovan Mannato ha proposto a Cheri di trasformarlo in un film. Un film che, già in concorso al Sundance Film Festival e al Toronto Film Festival nel 2003, è in arrivo sugli schermi cinematografici italiani, il prossimo 4 giugno, distribuito dalla nuovissima EP Production Distribuzione.

"Quando ho letto la sceneggiatura mi sono subito calata nel personaggio, soprattutto per l'aggressività che esprime". Queste parole appartengono a Gina Gershon, interprete e co-produttrice, insieme a Gina Resnick, Alexis Magagni-Seely ed al succitato Donovan Mannato, del lungometraggio, diretto dall'esordiente Alex Steyermark, che ha dichiarato: "Ho lavorato su svariati progetti musicali e pensavo di aver chiuso questo capitolo. Per Prey for rock & roll mi hanno chiesto di fare essenzialmente la stessa cosa: lavorare come un regista di musica alle prime armi. La lettura della sceneggiatura mi ha trasmesso molte sensazioni ed ho capito che si trattava di un genere di film e di scene che avrei potuto realizzare con successo".

Conoscendo lo spirito spensierato, ma allo stesso tempo provocatorio, della musica punk, lanciata dai già citati Ramones grazie a brevi e velocissimi pezzi che, con un paio di ritornelli ed un assolo appena accennato costituito da due o tre accordi, non facevano altro che rielaborare, per mezzo soprattutto del distorsore utilizzato ad elevati livelli, il sound di Phil Spector e di tutto il surf e il beat dei primi anni Sessanta, dai Beach Boys a Dion & The Belmonts, ci aspettavamo un'opera incentrata soprattutto sul potere coinvolgente e scaccia-preoccupazioni del rock'n'roll. Steyermark invece privilegia il realismo, eliminando virtuosismi da videoclip (da cui proviene) per dare spazio ad inquadrature fisse, il più delle volte illuminate senza utilizzo di dominanti colorate, le quali avrebbero conferito erroneamente un'atmosfera più fantastica (la fotografia è di Antonio Calvache), ed immortala le trasgressive protagoniste che, più che prede del rock'n'roll, sembrano soltanto prede del sesso e della droga, gli altri due elementi che da sempre hanno provveduto a far cadere il cattivo sguardo critico sul rock. Ma allora perchè quel titolo? Il punk non si respira neppure nelle canzoni, distribuite quasi senza criterio nel corso della pellicola e che, a parte qualcuna (citiamo Punk Rock Girl), ricordano più il sound dei Nirvana che i brevi pezzi di cui sopra. Qualche stralcio lo troviamo in una certa ambientazione suburbana e grotteschi personaggi maschili da fumetto underground, i quali, incapaci di amare, giustificano probabilmente l'occasionale ricorso della protagonista a rapporti con persone del suo stesso sesso.

E l'idea di affrontare un tema come quello della corsa al successo in maniera cruda e verosimile, lasciando veramente poco spazio ai sogni ed al già visto (dimenticate Le ragazze del Coyote Ugly), per privilegiare la sofferenza, non ci dispiace affatto, ma il regista, pur insistendo sul deprimente ambiente in cui le Clam Dandy vivono, non spinge sul pedale dell'acceleratore quando necessario, consegnandoci una pellicola continuamente farcita di sequenze che, troncate improvvisamente, preparano lo spettatore ad impressionanti conclusioni che in realtà non arrivano mai. Conclusioni che solo Cheri Lovedog può conoscere, in quanto la storia l'ha vissuta in prima persona.