Recensione The Rolling Stones Crossfire Hurricane (2012)

Se i Beatles hanno conquistato l'eternità musicale, i Rolling Stones, a forza di batoste, dolori, autodistruzione e rinascite, sono diventati l'essenza stessa della modernità e questa differenza viene mostrata alla perfezione dal documentario di Brett Morgan.

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Sul dualismo tra Beatles e Rolling Stones si è scritto tanto, ad ennesima dimostrazione che in molti campi dello scibile umano si cerca l'antagonismo a tutti i costi, l'acerrima competizione, la contrapposizione delle squadre, ciascuna supportata ciascuna dai propri tifosi scalmanati. Togliamoci subito il dente allora, esprimendo il nostro parziale punto di vista sulla questione; i Fab Four sono stati geniali, ma gli Stones hanno resistito e non è affare di poco conto in un mondo iperbolico e fluttuante come quello del rock; se i quattro di Liverpool hanno conquistato l'eternità musicale, cristallizzati nella loro perfezione, quasi un ideale al di là dello spazio e del tempo, Jagger e compagni, a forza di batoste, deviazioni dalla via maestra, dolori, autodistruzione e rinascite, sono diventati l'essenza stessa della modernità, del cambiamento. E questa differenza sostanziale viene mostrata alla perfezione dal documentario di Brett Morgen, The Rolling Stones Crossfire Hurricane, nelle nostre sale cinematografiche il 29 e 30 aprile prossimi grazie a Microcinema Distribuzione.


Due ore di solluchero totale per i fan dei Rolling Stones, ma anche un interessante viaggio alla scoperta di una delle band più importanti per coloro che non hanno approfondito del tutto la portata del fenomeno, paragonabile per certi versi al delirio religioso. Che ci siano omissioni è verosimile in un documentario nato per essere la celebrazione ufficiale dei 50 anni di carriera degli Stones; perché però si dovrebbe "rovinare una bella storia con la verità?" dice Keith Richards con un sorriso beffardo. Dato questo presupposto, ci sentiamo di scrivere che non è l'attendibilità l'elemento chiave del lungometraggio di Morgen, quanto la capacità di rispecchiare l'essenza degli Stones, con tutte le loro stranianti contraddizioni. Di Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Ronnie Wood e degli ex componenti Bill Wyman e Mick Taylor sentiamo solo la voce; essi rispondono alle domande che gli vengono poste e mentre ne ascoltiamo le parole, li vediamo nel pieno fulgore della giovinezza, nelle immagini dei concerti e delle interviste rilasciate anni prima. La loro non è una presenza fantasmatica, anzi, con le argomentazioni così cariche di humour e dissacranti riescono ad illuminare di luce nuova il passato. Ne trae giovamento tutta l'opera, credibile e "classica" nella sua progressione vettoriale e nell'accuratezza dell'assemblaggio dei materiali di repertorio, e nel contempo trascinante a livello emotivo.

Già il titolo, straordinario attacco di Jumpin' Jack Flash, è una dichiarazione di guerra. I was born in a crossfire hurricane, cantava Mick Jagger, parlando di una tumultosa nascita e alludendo ad una vita ancor più tempestosa; niente di più vicino a quanto avvenuto allo stesso gruppo, formatosi nel giugno del '62 grazie all'incontro tra Jagger, Richards, Taylor e Brian Jones. Chiamati a sostituire la band di Alexis Kormer, salirono sul palco del Marquee di Londra e subito conquistarono il pubblico (le ragazze se la facevano sotto dall'emozione). Da due anni il Regno Unito tutto palpitava per i Beatles, ma i tempi erano decisamente maturi per i Rolling Stones, nome rubato al verso di un pezzo di Muddy Waters. L'ipotesi che potessero essere l'alternativa cattiva al quartetto di Liverpool è affascinante e realistica, ma non può spiegare del tutto i motivi di una popolarità che non conosce tramonto.
Morgen lavora con la precisione dell'archeologo che porta alla luce reperti di antiche civiltà; ad essere svelate in questo caso non sono le rovine di qualche mitica città, ma le tracce della carriera di una band senza eguali. Grazie ai filmati tratti dai documentari Gimme Shelter dei fratelli Mayles, che immortalò la scena dell'accoltellamento di un ragazzo al culmine di una rissa sul prato, e Cocksucker Blues di Robert Frank, emerge un ritratto nitido del gruppo, travolto da un successo non arginabile e vittima del proprio delirio autodistruttivo. Il dramma di Brian Jones, morto nel luglio del 1969 in tragiche circostanze, qualche settimana dopo la sua separazione dal gruppo, e anche il successivo abbandono di Mick Taylor, subentrato proprio al posto di Jones, sono state solo alcune tappe di una storia segnata anche dalla dipendenza di Keith Richards dalle droghe pesanti, elemento che lo ha portato più volte vicino alla prigione e che ha rischiato di rompere definitivamente il giocattolo.
Eppure i Rolling Stones non pensavano a sé stessi come a dei simboli, preferivano considerarsi degli outsider. Scostumati lo erano eccome, nelle prime sequenze li vediamo nei backstage dei loro concerti, impegnati a tirare cocaina o in qualche incontro ravvicinato con le groupies, ma in quanto artisti possedevano fragilità, dilanianti tormenti interiori che ebbero il proprio peso nella vita di ogni singolo elemento e della band in generale; forse proprio per questo rappresentarono un argomento di grande interesse per cineasti del calibro di Jean-Luc Godard e Martin Scorsese che ai rockers inglesi hanno dedicato due documentari, rispettivamente Sympathy for the Devil e Shine a Light, a conferma che i grandi, qualunque sia il loro campo d'azione, esercitano un'attrazione senza fine sul pubblico e sui compagni d'arte. Solo al termine del film i Rolling Stones compaiono nella loro 'forma' attuale, impegnati, neanche a dirlo, in un concerto; in quel momento ne possiamo apprezzare il lunghissimo cammino effettuato, tirando un sospiro di sollievo. E' vero, hanno resistito. Prima di tutto a sé stessi.

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4.0/5