Recensione Stockholm East (2011)

Il rigore della messa in scena e l'equilibrio narrativo che, per buona parte della sua durata, caratterizzano Stockholm East, ne fanno un esordio a cui vale la pena dare un'occhiata.

Dalla perdita, il legame

Due coppie come tante, la cui vita viene sconvolta da un'improvvisa tragedia. Il dolore e il senso di colpa da una parte, l'odio e il rancore dall'altra, ma soprattutto, per entrambe, un grande senso di impotenza. E l'impossibilità, per le due persone direttamente coinvolte, di venire a capo degli eventi, di trovare in essi un senso, ma anche di essere compresi dalle persone a loro vicine. E così, l'incontro, quasi casuale, un avvicinamento temuto ma poi sempre più desiderato, e infine l'amore, altrettanto inaspettato. E, in esso, delle bugie dall'una e dall'altra parte, in un rapporto che però diventa sempre più necessario per entrambi. Neanche la verità, pesante come un macigno, avrà forse il potere di spezzare un legame tanto profondo.

Stockholm East è il titolo dell'esordio nel lungometraggio del regista svedese Simon Kaijser da Silva (classe 1969), già autore di diverse e apprezzate serie TV; ma è anche il nome del ristorante in cui hanno luogo molti degli incontri tra i bravissimi protagonisti Mikael Persbrandt e Iben Hjejle. Metaforicamente, è anche un luogo sospeso, fuori dal tempo, in cui le bugie raccontate da entrambi non hanno peso, in cui ciò che conta è una vicinanza che va oltre il semplice conforto reciproco. Questo interessante esordio è caratterizzato da un'estetica filmica piuttosto curata: la fotografia è ricca di luci artificiali e contrasti quasi surreali, il ralenty è usato di sovente, il montaggio piuttosto ricercato. Nonostante questo, il tono della narrazione è aspro, improntato al realismo, all'espressione di un dolore che trova il suo necessario contraltare nel non detto.
La sceneggiatura delinea attentamente i caratteri dei due protagonisti, ne sottolinea abilmente la solitudine e il reciproco spaesamento, l'impossibilità di esternare alle persone a loro vicine la portata di un dolore apparentemente tanto leggibile, quanto in realtà impossibile da penetrare fino in fondo. La narrazione accompagna lo spettatore verso una "resa dei conti" con la verità che sarà inevitabilmente drammatica, ma che si intuisce non potrà essere la fine di un rapporto che ha piantato semi (non solo metaforici) troppo profondi per essere sradicati. La regia di da Silva, da par suo, mette abilmente in evidenza i segni concreti della perdita, una stanza vuota e ancora popolata di foto, un aquilone, un gesto d'affetto che cerca di tenere in vita chi l'ha ricevuto: quasi come in un La stanza del figlio più pudico, in cui i sentimenti restano più sotto traccia.
Il limite di questo Stockholm East è forse proprio quello di tradire, nella parte finale, questa sua impostazione improntata al non detto, con qualche eccessiva concessione a una descrizione più esplicita, e quindi più convenzionale, della tempesta emotiva che i due protagonisti attraversano. Nonostante questo, il rigore della messa in scena e l'equilibrio narrativo che, per buona parte della sua durata, caratterizzano il film, ne fanno un esordio a cui vale la pena dare un occhio, un buon debutto per la sezione della Settimana della Critica di questa, appena iniziata, sessantottesima Mostra veneziana.

Movieplayer.it

3.0/5