Recensione Il generale della Rovere (2011)

Al di là delle inevitabili polemiche, questa versione televisiva de Il generale Della Rovere rappresenta un tentativo onesto di reinterpretare una storia nota ai più, che forse potrà indurre gli spettatori più giovani al recupero di quello che è un classico assoluto del cinema.

Omaggio, reinterpretazione o affronto?

Rifare un classico è sempre un'operazione ardua, ad alto rischio. I pericoli si moltiplicano quando, come nel caso di questo Il generale Della Rovere versione 2011, la natura storicamente collocata del soggetto ne rende impossibile un'attualizzazione (almeno narrativa) e gli autori della nuova versione devono confrontarsi non con uno, ma con tre mostri sacri: in questo caso, parliamo di Roberto Rossellini (regista del film del 1959), di Vittorio De Sica (protagonista) e di Indro Montanelli (autore del racconto che diede origine alla pellicola originale). Le discussioni e le polemiche, tutte incentrate sulla reale necessità di operazioni del genere, sono inevitabili: in questo caso, è da ricordare quella di Manuel De Sica, musicista e figlio dell'attore del film originale, che ha categoricamente affermato che "i classici non si toccano" e che operazioni del genere sarebbero in partenza destinate al fallimento, in quanto scontano un inevitabile paragone con l'opera a cui si ispirano. Al di là del carattere discutibile di una polemica preventiva, fatta prima di aver visto l'oggetto della critica, bisogna dire che c'è qualche elemento di verità nelle parole di De Sica: per quanto gli autori di questa miniserie si siano sforzati di distanziarsi dal film di Rossellini, e anche nelle dichiarazioni abbiano più volte ribadito di non voler girare un remake, quanto piuttosto una propria versione del racconto originale, è troppo vivo nella memoria cinefila il ricordo del film del 1959 per non andare, anche inconsciamente, a un paragone, a una messa a confronto di due opere che raccontano la stessa storia. Inoltre, l'enorme differenza di rilevanza (nei rispettivi ambiti) tra il film di Rossellini e il racconto di Montanelli (che forse sarebbe stato dimenticato se non ne fosse stata tratta una versione cinematografica) fa sì che il titolo sia legato, nella memoria del pubblico, quasi esclusivamente alla versione cinematografica, con tutto ciò che ne consegue.

Detto questo, bisogna comunque riconoscere una buona dose di coraggio ai responsabili di Rai Fiction e al regista Carlo Carlei per aver affrontato un'operazione così rischiosa senza timori reverenziali, reinterpretando il soggetto originale e aggiungendo alcuni motivi fondamentali (tra questi, l'approfondimento del background di Olga, prostituta innamorata del protagonista) che testimoniano se non altro uno sforzo di portare avanti la storia dal proprio punto di vista, prescindendo (per quanto possibile) dall'ossessione costante di un confronto che risulterebbe ingeneroso. Stesso riconoscimento va fatto al protagonista Pierfrancesco Favino, che dà vita al "suo" Giovanni Bertone senza tentare in alcun modo di imitare un modello che resta inavvicinabile, ma trovando una via originale a un personaggio non facile, la cui evoluzione nel corso della narrazione rappresenta non solo il riscatto di un reietto attraverso l'estremo sacrificio, ma anche la presa di coscienza di un intero popolo. Favino, attore navigato, offre un'interpretazione intensa, che pur laddove si muove pericolosamente sui confini di un'enfasi che rischia di fargli perdere credibilità (come nella scena dell'appello agli altri detenuti durante i bombardamenti) riesce a restituire, con mestiere ma anche passione, la crescita interiore di un uomo tormentato, che nell'inferno di un carcere scopre di essere capace di provare sentimenti, ed esprimere valori, prima totalmente ignorati. Una resa, quella del personaggio, più esplicita ed emozionale rispetto a quella che De Sica aveva conferito all'Emanuele Bardone del 1959; così come più esplicito è in generale l'impianto della fiction, che non ha paura di coinvolgere emotivamente lo spettatore attraverso tutti i mezzi spettacolari disponibili (non ultima un'intensa colonna sonora).
Se l'ampliamento e la diluizione della storia originale (portata a due episodi di circa due ore l'uno) sono riusciti senza grosse difficoltà agli sceneggiatori, che evitano quasi sempre inutili lungaggini e a mantengono alta l'attenzione dello spettatore anche sulle sottotrame accessorie (tra cui quella del cavallo della piccola Ada) non va dimenticato il contributo dato dagli attori, che offrono tutti prove complessivamente convincenti: da una credibile Raffaella Rea nel ruolo di Olga a un intenso e fragile Andrea Tidona, che veste i panni del detenuto Bacchelli, fino a un interprete internazionalmente affermato come Hristo Shopov (lo ricordiamo ne La Passione di Cristo di Mel Gibson) che offre un ritratto giustamente ambiguo di un carattere complesso, e sfaccettato, come quello del colonnello Muller.
Complessivamente, quindi, questa versione televisiva de Il generale Della Rovere rappresenta un tentativo onesto di reinterpretare una storia nota ai più, che forse potrà indurre gli spettatori più giovani (sempre che la collocazione - su RaiUno in prima serata - sia tale da richiamare questo tipo di pubblico) al recupero di quello che è un classico assoluto del cinema. Se le discussioni sull'opportunità di questo tipo di operazioni sono potenzialmente infinite (e con elementi di ragione da entrambe le parti) bisogna dire che il risultato in sé è in definitiva onesto, sempre tenendo conto dei limiti in cui inevitabilmente prodotti come questo si muovono.

Movieplayer.it

3.0/5