Recensione Ana Arabia (2013)

Ana Arabia è na pellicola visivamente fluida in cui il movimento funge da collante tra le singole storie rappresentando, a detta dello stesso regista, una grande metafora dell'intreccio ineluttabile dei destini di arabi ed ebrei.

Il futuro nel passato

Con Ana Arabia Amos Gitai prosegue il suo personale discorso su Israele, sul suo passato doloroso e il presente incerto. In uno stato di guerra perenne i destini di una famiglia arabo-ebrea vengono narrati a una giornalista che si intrufola in una piccola comunità isolata sita al confine tra Giaffa and Bat Yam. La statuaria Yuval Scharf interpreta Yael, una giovane reporter che raccoglie informazioni su Ana Arabia, ebrea di origine polacca che, negli anni '50, scatenò i pettegolezzi e i pregiudizi di parenti e amici decidendo di sposare un arabo. A distanza di anni dalla sua morte Yael si reca nel piccolo agglomerato in cui risiedono il marito, la figlia e la nuora della donna, ma anche altri arabi ed ebrei reietti, per intervistarli e ricostruire la storia di Ana Arabia e, di conseguenza, la storia di Israele.

Per arricchire una pellicola interamente basata sul racconto orale e sulla rievocazione del passato, Amos Gitai decide di forzare le possibilità del mezzo cinematografico girando un unico piano sequenza di 81 minuti in formato 1:25. La macchina da presa si incolla a Yuval e la segue nella corte in cui viene accolta dai membri di questa piccola comunità isolata che le raccontano storie familiari, aneddoti mitici, episodi drammatici, si lamentano della loro condizione o semplicemente riflettono a voce alta sul senso della vita snocciolando sentenze, proverbi e pillole di filosofia. Il tutto senza stacchi. La steadycam si sofferma a lungo sui singoli personaggi per non perdere neppure un frammento delle loro parole e riprende la sua perlustrazione solo nel momento in cui Yael si sposta a dialogare con un altro intervistato. Ne risulta una pellicola visivamente fluida in cui il movimento funge da collante tra le singole storie rappresentando, a detta dello stesso regista, una grande metafora dell'intreccio ineluttabile dei destini di arabi ed ebrei. In questo modo, però, le potenzialità della tecnica vengono addomesticate e subordinate alla lentezza globale del ritmo. Siamo ben lontani dalla potenza visiva di opere come Arca russa di Sokurov.
Nelle mani di Gitai l'uso del piano sequenza avrebbe potuto acquisire peso generando un surplus narrativo, ma ciò che al regista preme realmente è valorizzare il racconto orale, l'elemento umano e naturale presente nel suo film. La famiglia di Ana Arabia, i vicini, gli altri abitanti dell'agglomerato arabo in cui il film è ambientato sono liberi di riversare sul pubblico un fiume di parole, senza limiti né contraddittorio. Gli interventi della giornalista, in modo antitetico a quanto il suo ruolo esigerebbe, sono ridotti al minimo. La funzione del personaggio affidato alla bella Yuval Scharf è di fatto accessoria visto che spesso la sua presenza muta a fianco di un personaggio è sufficiente a dare il via a monologhi fiume che, alla lunga, non favoriscono la fruizione appesantendo il risultato finale. Ana Arabia conferma l'intenzione di Amos Gitai di proseguire un discorso politico cercando nuove forme per invitare le due anime che convivono in Israele a raggiungere una forma di coabitazione pacifica attraverso la reciproca conoscenza. Allo stesso tempo il film rivela come, col passare del tempo, il linguaggio del regista tenda a involversi tradendo una stanchezza dovuta a ragioni anagrafiche o, più semplicemente, a un pessimismo che si aggrava. Parlare del presente diviene impossibile senza il filtro di un passato - privato, come nel caso del precedente Lullaby to My Father dedicato al padre defunto, o pubblico - la cui eredità si fa sempre più pesante.

Movieplayer.it

3.0/5