Recensione Hollywood party (1968)

Hrundi V. Bakshi ha un sogno: diventare un grande attore di Hollywood. Ma lui lo è già. Altrimenti come si potrebbe ridere per tutta la durata di Hollywood party? Blake Edwards e Peter Sellers devastano il cinema comico a colpi di dinamite e di schiuma bianca.

No Sellers, no party!

Il film di Blake Edwards è anche il film di Peter Sellers. Nel suo rimuginare i generi preferiti, Edwards, infatti, crea con Hollywood Party un film sul cinema comico delle origini traendone spunto per allungare uno sberleffo continuo allo star system, per il quale il regista americano ha provato sempre un sentimento di odio-amore. Hollywood Party è un capolavoro di compiutezza, mettendo in risalto tutto quello che il cinema di Blake Edwards ha sempre offerto: tanta musica di qualità (con qualche vecchio "standard" cinematografico, insieme al contributo del fido Henry Mancini), personaggi sempre ben caratterizzati (come dimenticare il cameriere ubriacone che è quasi un alter ego, molto più invadente, del vecchietto uscito dall'osteria de La pantera rosa?), trovate visive accattivanti (la fuga nelle stanze che ricalca il piano-sequenza in apertura di Uno sparo nel buio), allusioni ironiche alla sophisticated comedy (gli ambienti di lusso, quasi plastificati e vacui, con tanto di opere d'arte moderna che possono essere liberamente ripensate con un semplice rotolo di carta igienica).

Su tutti, però, impera lo stilema da comicità "fisica" che Peter Sellers contribuisce, e non poco, a modellare a sua immagine e somiglianza (con tanto di effetto lucido da scarpa sul volto). Il grande attore impersona in Hollywood Party la classica figura slapstick dello sciagurato solitario e pasticcione delineata nell'epoca del muto da due mostri sacri come Charles Chaplin e Buster Keaton. Ma il peso delle imprese catastrofiche dell'indiano Hrundi V. Bakshi è qui quasi rovesciato, travolgendo tutto e tutti, senza scalfire minimamente la dura corazza dello sbadato protagonista (per lui tutto ciò che succede rientra nella vita ordinaria). Per Hrundi, aspirante attore, tutto il mondo è un set cinematografico: quello vero dell'inizio (con una spassosissima gag "musicale") è solo il preludio ad un palcoscenico più chiuso, in tutti i sensi, di un ambiente borghese in festa (i mancati riti conviviali de Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel non saranno forse il riflesso di ciò che combina l'"angelo sterminatore" Hrundi?). Si distrugge involontariamente quello e si distrugge, altrettanto accidentalmente, questo, prima che l'uno o l'altro distruggano, intenzionalmente questa volta, le aspirazioni del figurante indiano. La finzione della realtà in Hollywood party porta in trionfo la realtà della finzione cinematografica ("difenditi, indiano!", intima scherzosamente la star del grande schermo "Wyoming" Bill Kelso a Hrundi, suo grande fan).

A mettere i pezzi a posto o, meglio, a metterli ancora più in disordine, ci penserà un elefante "truccato" irriverentemente (almeno per l'indiano Hrundi) da figlio dei fiori. Uno dei sacri simboli dell'Induismo (dalla pantera rosa all'elefante colorato il passo è breve...) sarà l'apripista per i fuochi d'artificio del finale, con la schiuma bianca che, come un pendant di Blob, fluido mortale, invaderà tutta la villa, livellando le gerarchie sociali ed eliminando lo sporco più sporco delle convenzioni e degli stereotipi. Il tutto al ritmo dei canti della tradizione popolare russa e di una perenne intelaiatura visiva e gestuale da vero classico del cinema comico.