Recensione Five Fingers - Gioco Mortale (2006)

Aiutato dai suoi protagonisti, ma un po' meno dalla sua sceneggiatura, Laurence Malkin gestisce con sicurezza la parte meno dinamica del film, ambientata in un unico ambiente con soli quattro personaggi, mantenendo un discreto livello di tensione.

Le cinque dita della tortura

Non stupisce che i primi film sugli argomenti caldi degli ultimi tempi inizino ad arrivare nelle sale.
Negli ultimi anni siamo stati costretti a familirizzare con temi come terrorismo, sospetto ed abusi su prigionieri, temi su cui Laurence Malkin cerca di riflettere in Five Fingers - Gioco mortale, thriller discretamente interpretato da Laurence Fishburne e Ryan Phillippe.

Nel film, Phillippe è Martijn, pianista jazz olandese, che lascia la sua ragazza e si reca in Marocco per sostenere un programma di beneficenza per fornire cibo a bambini malnutriti. Ma l'idealista Martijin non arriverà mai a destinazione, perchè verrà rapito, insieme alla sua guida inglese Gavin, da un gruppo di terroristi.
Capeggiati da Ahmat, interpretato da un misurato Fishburne, i terroristi non sembrano credere alle risposte di Martijn alle loro domande sul programma di beneficenza a cui dovrebbe partecipare e sui fondi che lo finanziano, e sono disposti ad usare ogni possibile metodo per estorcere la verità al loro prigioniero, amputandogli un dito dopo l'altro in un gioco perverso in cui nessuno è veramente chi dice di essere e che conduce all'immancabile colpo di scena finale.

Aiutato dai suoi protagonisti, ma un po' meno dalla sua sceneggiatura scritta con Chad Thumann, Malkin gestisce con sicurezza la parte meno dinamica del film, ambientata in un unico ambiente con soli quattro personaggi, mantenendo un discreto livello di tensione.
In contrasto con i flashback che ci mostrano Martijin con la ragazza lasciata in Olanda e che risultano freddi, eterei e rarefatti, il grande magazzino che fa da teatro (e l'uso del termine non è casuale) alle lunghe sequenze di interrogatorio è fotografato con molti chiaroscuri ed appare molto più opprimente e caldo. In questo contesto, il panico di Phillippe è tangibile e Fishburne riesce a mantenersi credibile nonostante la ripetitività di alcune domande che pone al suo prigioniero. Unico difetto di entrambi, il marcato accento (olandese per Phillippe, arabo per Fishburne) che risulta alla lunga troppo forzato.
Al loro fianco, buona anche la prova di Gina Torres che interpreta la moglie di Ahmat.
Dove il film perde efficacia, è in un finale in cui Malkin cerca di demolire gli stereotipi messi in gioco (sostituendoli purtroppo con altri), con un risultato poco credibile.

Nel complesso un lavoro interessante per il suo tentativo di analizzare situazioni complesse non limitandosi ad usarle come semplice background per una storia di tensione, tentativo purtroppo non riuscito per alcuni limiti di scrittura che ne minano la credibilità, soprattutto nel finale.

Movieplayer.it

3.0/5