Recensione Every Day Is A Holiday (2009)

Più che un road movie il film della regista Dima El-Horr è un percorso dai contorni metaforici ed esistenziali, che affronta temi importanti come l'emancipazione femminile in Libano, anche se forse pecca di un eccessivo simbolismo.

La sposa libanese

Una donna, vestita da sposa, corre con tutta la forza che ha in corpo, fino allo stremo. Attraversa un tunnel, una galleria oscura che pare essere interminabile. Insegue suo marito, che le è stato portato via da secondini per rinchiuderlo in prigione, mentre lei indossa ancora l'abito nuziale. Ma la neosposa non è l'unica a condividere questo triste destino, come mostra la sequenza successiva: tante donne, tanti volti affranti, attraversano quella stessa galleria con un incedere lento e disperato, mostrando al pubblico un ritratto del proprio marito in carcere. Più che un road movie in senso classico, l'opera della giovane regista d'origini libanesi Dima El-Horr dal titolo volutamente sarcastico Every Day is A Holiday, appare come un percorso dai contorni metaforici ed esistenziali.

Un vero e proprio viaggio della speranza, quello intrapreso da un gruppo di donne di Beirut per raggiungere in autobus il carcere dove si trovano prigionieri i rispettivi mariti. Una sorta di prova spirituale, un "attraversamento del deserto" sia in senso letterale che simbolico, dal momento che in seguito a un incidente al pullman le donne si ritrovano abbandonate al loro destino in mezzo a dune sabbiose. Il film ben presto di focalizza sulla storia di tre protagoniste, mettendone in luce la loro condizione di "prigioniere" almeno quanto, se non di più, dei rispettivi mariti. C'è chi è talmente disgustata del compagno da non poterne rievocare alla mente nemmeno l'odore. C'è chi, invece, abbandonata in abiti nuziali, non può fare a meno di sentirsi inestricabilmente legata a un matrimonio ancora nemmeno effettivamente consumato. C'è, ancora, chi si fa coinvolgere dal marito nella spirale della violenza e della guerra, all'interno di un conflitto che è solo e sempre "maschile".
Attraverso l'impiego di campi lunghi suggestivi e di rigorosi piani sequenza, Dima El-Horr utilizza in forma di metafora il tragitto delle protagoniste per affrontare questioni politiche e sociali e porre in primo piano il tema della difficoltosa emancipazione delle donne in Libano. Lo schematico assunto di partenza funge, in realtà, da mero scheletro per rappresentare la condizione delle tre protagoniste, evocata soprattutto mediante il ricorso al simbolo e alla similitudine. Le donne, infatti, sono spesso ingabbiate in spazi chiusi e opprimenti, come cabine telefoniche, pulmini o piccoli camion, a sottolinearne la loro condizione di perenne e soffocante prigionia. Per contrasto, l'isolamento del deserto funge da contraltare alienante, che evidenzia il loro destino di tragico abbandono.

Chaque jour est une fête guarda a modelli "alti" del cinema d'Autore, Michelangelo Antonioni in primis, anche se corre il rischio di sconfinare nell'ermetismo più estremo e nella ricerca della metafora a tutti i costi. Rimangono alla mente, comunque, alcune immagini e situazioni ricche d'estro visionario, come l'abbraccio sott'acqua della coppia di giovani sposini, alla maniera dell'Atalante di Jean Vigo.