Recensione Il compagno americano (2002)

Commedia ambientata nell'Italia fascista, questo secondo film di Barbara Barni racconta il clima dell'epoca e le sue ripercussioni sul cinema, facendo un'originale ipotesi sulla nascita di un genere che avrebbe segnato il dopoguerra: il neorealismo.

La rivoluzione fraintesa

Questo secondo film della regista milanese Barbara Barni è una commedia agrodolce ambientata in periodo fascista, pochi giorni prima dell'entrata dell'Italia in guerra, in una Cinecittà che, allora, fungeva da "fabbrica di illusioni" per un popolo affranto da miseria e paura. E' proprio lo snodo, il passaggio, epocale, tra due diversi modi di intendere il cinema, il tema principale della pellicola della Barni: dal cinema disimpegnato, lustro, plastificato dei cosidetti "telefoni bianchi", voluto dal regime per addormentare le masse, iniziavano a nascere in quel periodo i germi di quello che sarebbe stato il neorealismo, con la sua rappresentazione, diretta e senza mediazioni, delle miserie del popolo italiano nel dopoguerra. Qui viene immaginata, per questo particolare filone cinematografico, una nascita fantastica, frutto di una serie di coincidenze ed equivoci: Mainardi, regista cinematografico di successo, decide di imbarcarsi nella "rivoluzionaria" impresa di realizzare un film a colori, quando viene a contatto, casualmente, con Hogan, militante del Partito Comunista Francese in missione in Italia, scambiato per un tecnico americano del colore. La reticenza a parlare di Hogan verrà scambiata per riservatezza rispetto all'avanzatissima tecnologia cinematografica americana, mentre un volantino trovato nella sua valigia verrà interpretato come un nuovo "manifesto" cinematografico: l'ondata rivoluzionaria, afferma il documento, potrà cominciare soltanto dalle fabbriche, dalle officine, dalle masserie, dai contadini, dagli operai e dai proletari. Interpretando alla lettera il volantino, quindi, Mainardi stravolgerà trama ed estetica del suo film, decidendo di scendere in strada ad intervistare la gente comune, mostrando una faccia dell'Italia che il cinema, fino ad allora, mai aveva ritratto.
Il film è incentrato sostanzialmente su tre personaggi, sui loro rapporti e sul loro "mutare" durante la storia: Mainardi, regista arrivista, disimpegnato, poco propenso a rischiare con il suo mestiere, che, folgorato dalla rivelazione (fraintesa) di Hogan, diventa suo malgrado artefice di un nuovo modo di fare cinema; la capricciosa star Liliane Grey, più attenta al suo look che alla sua (pessima) recitazione, che si troverà, anch'essa involontariamente, ad offrire l'interpretazione della sua vita proprio nella situazione per lei di maggior disagio; Hogan, infine, personaggio caricaturale, idealista ingenuo fino all'eccesso, semplice esca usata dai suoi compagni per la missione di un esponente del partito ben più importante. Il giovane Hogan, appunto, convinto che l'appoggio dato dagli italiani a Mussolini sia il frutto del semplice terrore esercitato dal regime, e che l'Italia sia una sorta di principessa che aspetta solo di essere liberata, dovrà ricredersi amaramente assistendo al filmato a colori (autentico, e inedito, documento che la regista ha voluto includere nel film) in cui folle oceaniche acclamano il duce, e soprattutto quando una massa di contadini inferociti lo aggrediranno dopo aver letto i suoi volantini. E' una scena molto divertente e ironica, quest'ultima, con Hogan che, con la macchina da presa in mano, riprende i suoi aggressori mentre lo attaccano, con in testa una inferocita Liliane Grey (furiosa con il giovane per una tinta di capelli sbagliata), che offre così la sua migliore interpretazione; il filmato che ne deriva sembra una rivolta contadina, mentre la realtà di questi contadini iscritti al fascio che si sfogano con il malcapitato Hogan è ben più triste: quello italiano è in realtà un popolo tristemente conformista e disinteressato, sembra dirci la regista, e la rabbia dei contadini, trasfigurata dal mezzo cinematografico, è in realtà di segno opposto a quello che appare sullo schermo.
C'e' uno stacco abbastanza netto, a livello estetico e di regia, tra la prima e la seconda parte del film: la prima, più lenta, è ambientata prevalentemente negli interni di Cinecittà, con una fotografia molto più cupa e colori più sbiaditi, quasi a segnalare l'immobilismo del panorama cinematografico dell'epoca; nella seconda, invece, parallelamente allo stravolgimento del "film nel film" diretto da Mainardi, la macchina da presa "esce" allo scoperto, e il film si colora, assumendo tonalità più accese, più vicine alla realtà. Uno stacco che, per ammissione della stessa regista, vuole rappresentare la "rivoluzione" (non solo estetica, ma anche e soprattutto di contenuti) di cui Hogan si fa involontario artefice.
Il cast, ben assortito, risulta funzionare complessivamente bene: a un Hugh O'Conor che ben rende lo spaesamento e l'ingenuità di Hogan, si affiancano una simpatica Nancy Brilli nel ruolo della bella Liliane Grey, un ottimo Giulio Base che impersona Mainardi e una convincente Tosca D'Aquino nel ruolo della coraggiosa giornalista Zina.
Complessivamente, un film al tempo stesso amaro e divertente, che guarda con occhio disilluso all'"italietta" (tanto a quella dell'epoca, quanto a quella dei giorni nostri), cinica, opportunista e sostanzialmente incapace di schierarsi, ma che contemporaneamente sembra ribadire la necessità di dire la propria, di usare tutti i mezzi espressivi possibili per opporsi all'immobilismo che da sempre ci caratterizza. E il mezzo privilegiato, sembra concludere il film, è proprio quello del cinema, mezzo per il quale quest'opera fa trapelare un amore autentico, e sincero.

Movieplayer.it

3.0/5