Recensione Aprimi il cuore (2002)

Notevole esordio per il film della Colagrande, salutato con calore all'ultima Mostra di Venezia.

La doppia anima del Peccato

Due sorelle, Maria e Caterina (nomi non casuali) vivono assieme da quando la loro madre è morta. Maria è una prostituta, e le due ragazze portano avanti un rapporto morboso, nel quale Caterina è vittima della sorella che le fa da madre, da amante, da badante, mentre lei rimane a vivere in una spaventosa passività. Non esce di casa, neppure per andare a scuola.

La vita scorre dinanzi agli occhi di Caterina, per mezzo dei clienti che vanno e vengono, della televisione, dei libri che la ragazza legge e di cui cita spesso brani, come a volersi conquistare un pizzico di realtà, di vita. Quando la piccola e indifesa Caterina si innamora di Giovanni, il proprietario della sua scuola di danza, si innesca un meccanismo che farà prendere alla situazione una piega assolutamente inaspettata.

Primo lungometraggio dell'esordiente Giada Colagrande, è stato presentato alla 59a Mostra Cinematografica di Venezia, vincendo peraltro nella sezione "Nuovi Territori"; è certamente un'opera prima estremamente interessante, tanto per ciò che concerne l'aspetto puramente tecnico (il film è stato girato in digitale) che nei contenuti. E' innegabile infatti che la pellicola si presti a diverse interpretazioni, in funzione del valore che facciamo assumere ai simboli sparsi per tutta la durata del film. Basti pensare alle iconografie della Madonna che vengono accostate alle immagini dei rapporti sessuali consumati su un letto il cui cigolìo è un orologio che scandisce le ore passate nel vuoto, in una oscurità così pesante, oppressiva ma da cui non è possibile uscire. Tralasciando volutamente tutti i discorsi relativi ai simboli e al loro ruolo all'interno della rappresentazione registica (la stessa Colagrande ha affermato di aver voluto scegliere, per il suo primo lungometraggio, proprio un tema a lei molto caro, quello del doppio, della frantumazione, della mancanza di unità e coesione dell'anima), possiamo dire che la sceneggiatura è tutto sommato ben scritta, con qualche ingenuità, ma nel complesso i personaggi sono ben caratterizzati, e i dialoghi quasi mai banali, pur nella loro estrema semplicità.

E' quindi un'opera minimalista; anche gli interni, i locali ove si svolge la vicenda, sono squallidi, tetri, quasi scenografie teatrali sulle quali i personaggi si muovono con ipnotica ridondanza nelle loro azioni quotidiane. La regia e la fotografia sono due aspetti parecchio interessanti nell'analisi di questo lavoro. La prima è nervosa, insistente sui volti, molto frammentata e poco fluida, dal momento in cui le scene vengono quasi sempre "delimitate" da schermi neri, mentre la seconda, molto particolare, scura, fredda, con improvvisi bagni di luce abbagliante. Degna di nota l'interpretazione della stessa regista, in particolare molto efficace la mimica facciale e corporea (emblematico lo sguardo di Caterina perennemente perso nel vuoto, nell'incapacità di reagire); un po' meno esaltanti i comprimari, che appaiono più forzati e poco inseriti nella parte.

Introspezione psicologica, citazionismo letterario, arditi accostamenti fra arte e nuda realtà, si fondono in un piccolo ma efficace affresco di incesto, psicosi, sottile follia, sottomissione, vita e morte, sopportazione, situazioni paradossali fino al punto di non ritorno, che in realtà non fa altro che chiudere il cerchio, mettere fine allo psico-dramma silenzioso.