Il villaggio (a)globale di Shyamalan

Shyamalan con The Village è entrato in un bosco sconosciuto suonando una campana diversa dal solito. E forse qualcosa di nuovo sta arrivando nel suo cinema...

Con The Village M. Night Shyamalan prosegue il discorso avviato con il precedente Signs, ma innalzando il tutto all'ennesima potenza. Ci sono presenze inquietanti che circondano una comunità (in Signs era l'ambito più circoscritto di una famiglia); ci sono protagonisti sofferti e sofferenti, con un passato triste o con un senso di colpa atavico, che però al momento giusto riscoprono il coraggio e la forza interiore; c'è una linea invisibile (che in The Village tanto invisibile non è, perché delimitata da alti pali con tanto di bandiere gialle) che separa le fazioni avverse. Ma nell'ultima fatica del regista americano (di origini indiane), il tacito patto di non belligeranza impedisce il contatto tra i buoni e i cattivi. La paura che i personaggi del villaggio vivono giorno dopo giorno non è quella di Graham Hess e della sua famiglia in Signs, costretti a fronteggiare nella loro magione perfidi alieni in cerca di nuove risorse. La fobia per le creature innominabili (tipiche proiezioni fiabesche dell'inconscio) è difatti indotto dagli anziani capi del villaggio, per insufflare negli animi timorosi degli abitanti il ripudio della modernità e dei cambiamenti. E il rispetto "integralista" di dogmi e di regole fissate una volta per sempre che si cela dietro quegli alberi, dietro quei terrificanti costumi e dietro l'infausto colore rosso (che come d'incanto rispolvera le paure maccartiste del comunismo tipiche della science fiction a stelle e strisce degli anni d'oro: se non fosse che il rosso è anche il colore dei repubblicani di Bush, il nuovo spauracchio del cinema americano...).
E' dunque l'angoscia per un qualcosa che è finto, che non esiste veramente a dominare le quasi due ore di The Village. La salvezza, in un assunto simile, si trova al riparo dal mondo globale, in un luogo che però, come dimostrerà il film, è al suo stesso interno, è da esso stesso partorito. La tranquillità che si annida nel monotono scorrere delle giornate è garantita dal sovvertimento delle leggi della civiltà progredita alle quali, in conclusione, i protagonisti non potranno però più rinunciare del tutto.

Lo choc del dopo 11 settembre magnificato in Signs è in sostanza riproposto da Shyamalan con una veste diversa e più introspettiva. Solo così possiamo spiegare i toni molto più melodrammatici e più sentimentali di The Village, il cui finale è altresì molto aperto e con un segnale di speranza anomalo rispetto a quelli a cui l'ingegnoso regista ci aveva abituato in precedenza.

Si ha però l'impressione che Shyamalan nel nuovo film abbia un po' deluso le attese, e non certo per sottrazione ma per addizione. Mancano le tante suggestioni de Il sesto senso, di Unbreakable - Il predestinato e anche di Signs, proprio perché Shyamalan in The Village cerca di calcare la mano sui personaggi e sui dialoghi, collocandoli in un affresco d'epoca (che poi d'epoca non risulterà essere) certamente riuscito ma poco persuasivo. La sua indubbia maestria tecnica, soprattutto quando si tratta di scuotere lo spettatore, qui è molto più sorvegliata e distanziata.

Il marchio di fabbrica di Shyamalan, ovvero quello delle trovate fuorvianti e fuorviate che fanno cambiare repentinamente rotta alle intuizioni dello spettatore, qui non si vede quasi. L'auto della polizia che compare all'improvviso vicino al perimetro della zona protetta (e su cui la macchina da presa, non a caso, indugia molto) non desta troppi sussulti. Neanche il momento della scoperta dei costumi e quello della rivelazione mortale del volto di Noah sconvolgono più di tanto. Le sorprese del film vengono sepolte da un meccanismo narrativo che poco ha di Shyamalan. In The Village il regista esagera infatti nelle connessioni raffinate e intrigate, seppur poco intriganti, rendendo faticoso lo svolgimento. La gestione del tempo che ha fatto de Il sesto senso e di Unbreakable due piccoli capolavori per l'equilibrio tra tensione e narrazione, qui appesantisce l'intera costruzione a favore della seconda.

Shyamalan con questa sua ultima opera ha aperto forse una nuova fase di ricerca nel suo cinema, anche se in realtà ha dimostrato di non poter fare a meno delle sue specifiche caratteristiche. Da questo sforzo ne è uscito un film curioso, originale ma largamente incompleto e che potrebbe aver tradito i tanti sostenitori (tra i quali il sottoscritto) del regista. A costoro non resta che attendere che la sua campana suoni di nuovo, e questa volta con più intonazione e con più energia...