Recensione Anaconda: alla ricerca dell'orchidea maledetta (2004)

Dal punto di vista scenografico e visivo il film risulta apprezzabile, anche per la scelta di effettuare quasi tutte le riprese in esterno.

Il serpente e l'orchidea

Un serpente senza Jennifer Lopez è come una mortadella senza Valeria Marini? La risposta è contenuta in questo secondo episodio di "Anaconda", il thriller horror a sfondo ambientalista che nell'ormai lontano 1997 si era imposto agli onori della cronaca per due ragioni essenziali: l'impiego dell'animatronics, ossia una sofisticata tecnica elettronica spesso adottata dal cinema d'animazione, e lo straordinario successo al botteghino che garantì ad un film di discutibile valore un posto al sole tra i progetti cinematografici commercialmente più riusciti in quegli anni.

Anaconda: alla ricerca dell'orchidea maledetta non si lega al suo fortunato predecessore, né per continuità narrativa, né per soluzioni stilistiche. Semplice e lineare la trama: gruppo di scienziati di New York tentano di salvare l'impresa di ricerche dinanzi alla minaccia di un'interruzione dei finanziamenti mettendosi sulla strada di un'orchidea del Bormeo, contenente l'elemento essenziale per la sintesi della "pillola dell'eterna giovinezza". Giunti sul posto troveranno una guida, una barca sgangherata con cui spostarsi lungo il fiume e tanti Anaconda resi ancora più ostili dalla "stagione degli amori".
Sin dalle prime battute si capisce che rispetto al primo capitolo, più vicino allo schema dell'horror tradizionale, il film di Dwight Little intende avvicinarsi maggiormente alla lunga tradizione degli action movies anni Settanta, infarciti di bellezze al bagno, impavidi eroi, spietati antagonisti catapultati in un'avventura naturalista dalle tinte esotiche (non a caso ambientata nel Borneo), ravvivata da un'autentica orgia di serpentoni giganti ed aggressivi. Insomma a metà strada tra le "mirabili" gesta di Allan Quatermain alla ricerca delle miniere di Salomone (King Solomon's Mines, Allan Quatermain and the Lost City of Gold) e quelle pellicole aventi come veri protagonisti gli animali assassini (senza scomodare Gli uccelli di Alfred Hitchcock, meglio iniziare con i più recenti e modesti Tentacoli, Shark Attack, Komodo, Red River). Il risultato? Complessivamente modesto ma non in tutto deprecabile. Siamo infatti su livelli cinematografici decisamente migliori del film della Lopez (il che attesta che il rettile senza la sua "madrina" da solo può starci benissimo, al contrario dell'insaccato deprivato della Valeria nazionale). Del resto alcuni elementi invitano ad una riflessione sulla produzione e sulla realizzazione del film stesso. In primo luogo si vede che il regista è un cineasta piuttosto esperto di horror (la sua firma si legge su Halloween 4: The Return of Michael Myers e Phantom of the Opera con Robert Englund); secondariamente, dal soggetto di Hans Bauer (Anaconda, Komodo, Titan A.E.) una delle coppie di sceneggiatori più amate da Paul Verhoeven, costituita da Michael Miner ed Ed Neumeier (fidati collaboratori rispettivamente nei film Robocop e Starship Troopers), è riuscita a tirar fuori uno script vivace, a tratti addirittura efficace e coinvolgente; infine dal punto di vista scenografico e visivo il film risulta apprezzabile, anche per la scelta di effettuare quasi tutte le riprese in esterno.

La prova degli interpreti è invece mediamente insufficiente soprattutto per una tendenziale, apatica inespressività del loro linguaggio non verbale dinanzi ad alcune sequenze topiche.
Consigliabile agli amanti del genere ma con un'avvertenza su tutte: se avete amato Arac Attack e vi è piaciuto Lake Placid, questa volta passate tranquillamente il turno.