Recensione Brothers (2009)

Ripercorrendo le orme del film originale di Susanne Bier, un melodramma danese dai toni estremi, questo rifacimento americano firmato da Jim Sheridan si presenta come un'opera dalle molteplici sfumature: affresco antimilitarista, lucido ritratto di una famiglia disfunzionale, riflessione sui concetti di responsabilità, senso di colpa, peccato e redenzione.

Il ritorno del fratel prodigo

Sfuggente e sfaccettata, la struttura di Brothers è interamente basata sul gioco continuo di corrispondenze, rimandi e parallelismi nei percorsi esistenziali dei due fratelli del titolo, Sam (Tobey Maguire) e Tommy (Jake Gyllenhaal) Cahill. I due protagonisti circoscrivono traiettorie speculari e contrapposte, ma che finiscono in qualche modo per sovrapporsi e intercambiarsi tra loro. Una parabola emotiva che è resa in maniera efficace anche dal punto di vista cinematografico attraverso l'ampio ricorso all'espediente del montaggio alternato, elemento stilistico portante del film dal valore fortemente simbolico. Il nucleo narrativo di Brothers, adattato dallo sceneggiatore David Benioff a partire dall'omonimo film danese di Susanne Bier (in Italia distribuito con il titolo Non desiderare la donna d'altri), può dirsi tutto racchiuso nell'incontro-scontro tra le identità simmetriche di Sam e Tommy.

Non potrebbero esistere due individui più diversi tra loro: il primo è un rispettato membro della comunità, padre amorevole e capitano dell'esercito in missione in Afghanistan; il secondo è invece un perdigiorno dalla faccia tosta che entra ed esce di continuo dalla galera. Le due identità, tuttavia, verranno progressivamente ribaltate nel corso del film, in modo da rovesciare le iniziali aspettative dello spettatore, a partire da un evento che si rivelerà cruciale per entrambi: Sam, a seguito di un incidente sul campo di battaglia, è dichiarato morto, gettando in un baratro d'angoscia la moglie Grace (Natalie Portman) e le due piccole figlie Isabelle e Maggie. È l'inizio per Tommy di una vera e propria trasformazione, che lo porterà progressivamente a identificarsi con il fratello scomparso, fin quasi a prendere il suo posto nel cuore di Grace e delle bambine. Un meccanismo di proiezione e di rispecchiamento che ha una brusca sterzata quando all'improvviso ricompare Sam, sopravvissuto a caro prezzo alla prigionia talebana. I traumi subiti in guerra lo hanno sconvolto irreversibilmente, mettendolo di fronte ai recessi più oscuri e bestiali del proprio animo, tanto che l'uomo si sente ormai un estraneo all'interno della propria famiglia. Il ritorno di Sam sconvolge così nuovamente gli equilibri che si erano creati, traghettando le storie di tutti i personaggi verso un'inevitabile resa dei conti.

Eppure, al di là della calibratura quasi matematica della sceneggiatura, Brothers si presenta come un'opera dalle sfumature molteplici e rifrangenti; proprio come i riflessi della neve che fanno da sfondo alle scene cardine del film conferendo a situazioni e ambienti un'atmosfera ovattata, sospesa, alienante. Mantenendo molteplici spunti dell'opera originale - un melodramma familiare dalle tinte accese secondo la miglior tradizione danese - Brothers si presenta agli occhi del pubblico sotto svariate forme: affresco antimilitarista sulle tragiche conseguenze del conflitto afgano; ritratto spietato delle disfunzionalità familiari; minuziosa analisi sui meccanismi di elaborazione del lutto; riflessione sui concetti di responsabilità, senso di colpa, peccato e redenzione. Per di più, i riferimenti disseminati nella sceneggiatura si offrono a diverse chiavi di lettura: dall'interpretazione di tipo psicanalitico sui concetti di proiezione e identificazione, a suggestioni di stampo religioso (non per niente il film si apre con una sorta di "ultima cena", parla di un Caino e di un Abele e ripropone la parabola del "figliol prodigo").

A conferire un'ulteriore impronta personale a Brothers è la regia dell'irlandese Jim Sheridan che, sin dagli esordi con Il mio piede sinistro e Nel nome del padre, si è dimostrato particolarmente incline all'indagine dei rapporti famigliari, meglio ancora se offuscati dall'ombra della guerra. Il regista, come sua abitudine, conferisce al film una marca spiccatamente teatrale, rendendolo un ideale campo di prova per le interpretazioni dei protagonisti Tobey Maguire, Jake Gyllenhaal e Natalie Portman - qui al loro meglio - ma anche del resto del cast, tra cui spiccano le piccole Bailee Madison e Taylor Geare. La confezione hollywoodiana smorza un po' gli eccessi stridenti e provocatori del film del 2004 di Susanne Bier e presenta forse un finale maggiormente conciliatorio, per quanto non risolutivo. Brothers si rivela comunque un adattamento rispettoso, magari un po' troppo accademico, ma in grado di trasmettere in più punti il senso di angoscia, di disagio e di scardinamento delle certezze familiari borghesi che permeava l'originale.