Recensione Vivere un sogno (2007)

Esce il secondo capitolo della trilogia Goal, produzione inglese incentrata sul mondo del calcio vissuto ai massimi livelli. Product placement, storia fragile e molto David Beckham per un film che conferma la difficoltà di filmare il calcio.

Il calcio: lo sport infilmabile

La punta del Newcastle Santiago Munez riceve l'offerta della vita quando il Real Madrid chiede di incontrarlo. L'affare si conclude in breve e il calciatore deve trasferirsi subito a Madrid; mandato all'aria dunque il matrimonio di prossima organizzazione, Santiago e la fidanzata partono per la capitale spagnola. Ma se sul campo il giocatore di origini messicane si fa valere come può lo stesso non si può dire per la sua vita privata dove si alternano crisi continue sia con il procuratore che con la fidanzata. A complicare tutto arriva anche un fratello sconosciuto che gli svela la verità sui suoi genitori.

Il calcio è notoriamente uno sport infilmabile, troppe le difficoltà di riempire uno stadio per simulare una partita di massima categoria, troppo difficile creare dinamiche convincenti e radunare insieme grandi nomi, sponsor ecc. ecc. Per questo i film sul calcio sono stati un terreno poco praticato e comunque con esiti poco felici (se si esclude Fuga Per La Vittoria, pellicola calcistica comunque sui generis).
La serie di Goal (il finale prelude al necessario terzo episodio) non fa eccezione: cattive le premesse, cattiva la trama, pessimi i dialoghi e ridicoli i personaggi. Tutto nel film sembra puntare verso il basso, tutto tranne le scene di calcio, quelle sì veramente convincenti.

Nonostante effetti speciali spesso fastidiosamente stranianti rispetto al realismo delle restanti immagini, filmate da una troupe cinematografica durante partite vere, e una forzata presenza continua di David Beckham (è addirittura suo e non del protagonista il gol finale e risolutivo), quando il film si sposta sul campo da calcio sembra di comprendere perchè investire in un simile progetto. Le cose più convincenti avvengono lì (come è anche giusto) e i momenti cruciali (come quando Gavin Harris si sblocca dalla crisi o nella partita sotto la neve) sono attimi di calcio veri dove si scorgono finalmente sentimenti autentici. Peccato che il resto del film si dibatta inutilmente intorno a storielle di madri dimenticate e beghe casalinghe, senza avere il coraggio di investire massicciamente sullo sport come unica trama, sulle dinamiche di squadra e quello che comportano.

Rimaniamo ancora in attesa di qualcuno capace di coniugare grandi capitali, passione per il calcio e abilità registica per avere un film che parli di calcio con sincerità, che ne mostri il lato appassionante e le storie e i miti che è in grado di produrre.