Recensione Miami Vice (2006)

Il cinema di Mann è una struttura impressionante di segni, e Miami Vice, che non è un remake della serie omonima, un viaggio a meta perduta nei territori di un umanesimo in cui un mezzo sorriso vale quanto cento battute.

Gli occhi della notte

Ora è così, i minuti sono paradossalmente pochi, e se non è giustamente più tempo d'eroi, come recitava il titolo di un film di Aldrich del '69, non è neanche più tempo per avere tempo. "Probability is like gravity: you cannot negotiate with gravity" dice Sonny a Isabella sul lungomare. Se la probabilità è anche una questione di tempo, non c'è più spazio per farci i conti. E non è nemmeno più tempo di Heat - La sfida, del suo gigantismo abissale.

Adesso, qui, oggi s'è cambiati, né in meglio né in peggio, cambiati e basta, e Michael Mann lo sente, anzi, se lo sente addosso. Corre ma lo fa alla sua maniera, con un thriller poliziesco che ridefinisce i parametri del genere perché non è mai, mai quello che ci si aspetta. Quindi non è un thriller poliziesco. Miami Vice è cielo e terra, acqua e nuvole. In Miami Vice le latitudini percorse e camminate sono ampie, però in due ore e dieci si parla, e ci si guarda. Soprattutto. È come se lo sguardo di Mann (e con il suo, il nostro) sapesse perfettamente che "time is luck" (lo ripete Isabella a Sonny); dunque si attarda (la magnifica lunghezza dell'attimo in cui Rico e Gina slegano Trudy), si sposta (la mdp che da Rico si ferma sui festoni stradali, proprio come alla fine dell'impatto del furgone durante la prima rapina di Heat), cerca rifugio (tra la pelle dei corpi e le dita degli innamorati, su particolari all'apparenza pleonastici come la ruota di un'auto). Tenta addirittura di fermarsi, con brevissimi fermo immagine che hanno un senso romantico di inquietudine e di speranza; oppure si ferma per l'amore, che a volte possiede suggestioni paniche da mettere la pelle d'oca (il rapporto tra Jesús e Isabella sul letto a fronte di un enorme tronco d'albero, che non può non ricordare gli interni durante l'amplesso tra Francis e Reba in Manhunter - Frammenti di un omicidio).
Miami Vice va tra le parole che non possono sostare, se non negli addii, dove - ancora una volta - l'unica cosa da fare è guardare l'altro (andarsene). A tracciare una mappa di tutti gli sguardi di Miami Vice ci si perderebbe. Ogni singolo personaggio ha un'importanza non tanto dialettica, bensì specificatamente oculare: e Mann è lì per questo, se come sempre è in grado di cogliere anche la minima occhiata. Provate a contare le inquadrature-lampo di un volto che osserva. Per non parlare dei momenti di dialogo incrociato (l'incontro con l'informatore Nicholas).

Il cinema di Mann è una struttura impressionante di segni, e Miami Vice, che non è un remake della serie omonima, un viaggio a meta perduta nei territori di un umanesimo in cui un mezzo sorriso (quello che rivolge Sonny a Isabella durante il carico della nave) vale quanto cento battute. Non serve elencare le vicinanze di Miami Vice alla filmografia di Mann (che sono numerosissime e interne), né serve indicare la pignoleria di un autore al servizio della recitazione dei suoi interpreti (evidente nella gestualità, nella postura, nelle espressioni). Colpisce e sconvolge il tessuto osseo e nervoso di un'opera i cui vettori sono tutti direzionati alla persona, dalla quale peraltro partono e che agisce in una realtà capace di toccarla (attenti agli sfondi dei primi piani), esattamente come il digitale di Dion Beebe lambisce i toni con una voracità impensabile per il 35mm; un'opera più imponente, più rivoluzionaria e più definitiva di quanto molti saranno disposti ad ammettere. Scommettiamo.