Recensione Oro Rosso (2003)

Panahi ci guida tra le trafficate e grigie vie di una gelida Tehran, dipingendo un quadro opprimente, drammatico ma anche sottilmente ironico dei paradossi e delle ingiustizie della società iraniana.

Cronaca di una 'normale' tragedia

L'ultima fatica di Jafar Panahi risaliva al 2000 ed era quel Il cerchio che gli valse il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia. L'idea per un nuovo film, la sua quinta pellicola, gli fu suggerita dall'amico e maestro Abbas Kiarostami, che gli raccontò la triste vicenda di un giovane rapinatore che, rimasto intrappolato dai sistemi d'allarme in una gioielleria, aveva freddato il proprietario per poi spararsi un colpo in testa. Questo "banale" fatto di cronaca colpì tanto il regista di Mianeh che egli non perse tempo a chiedere a Kiarostami di farne la sceneggiatura di quello che oggi è Oro rosso.

La sequenza iniziale del film, girata con un'unica inquadratura statica, eppure dinamicissima, è da antologia: la gigantesca figura del protagonista è in ombra, come la sua misera e breve esistenza, e allo stesso tempo è in primo piano, sotto i nostri occhi sgomenti. Sono gli ultimi minuti della vita di Hossein: ma di qui in avanti con passo più placido si dispiegherà la narrazione, per raccontarcene il resto.
Hossein è un bravo ragazzo tranquillo cui tutti vogliono bene, e cui la cagionevole salute e la sorte avversa hanno impedito di coltivare ambizioni e speranze per un futuro più roseo. Ha promesso di impalmare la sorella dell'amico Ali, e i due stanno ingegnandosi per trovare un oggetto d'oro che la sposa, come vuole la tradizione, indossi il giorno delle nozze; per vivere consegnano pizze a domicilio, e il salario non consente loro di permettersi simili lussi. La ricevuta per l'acquisto di una collana che i giovani pescano in una borsetta trovata per caso getta Hossein nello sconforto: è una cifra inconcepibile, illeggibile, incommensurabile. Hossein vorrebbe lo stesso un simile tesoro per la sua fidanzata, ma il gioielliere che ha venduto la collana da mille stipendi da fattorino di pizzeria non lo fa nemmeno entrare nel negozio, perché coi suoi stracci addosso - ammette Alì - "si vede che non può essere un cliente".
Hossein, però, è orgoglioso, e l'umiliazione subita innesca una riflessione che renderà sempre più nere le sue prospettive e che porterà in superficie una rabbia atavica e devastante. Panahi lo segue con lucida benevolenza, per guidarci tra le trafficate e grigie vie di una gelida Tehran, dipingendo un quadro opprimente, drammatico ma anche sottilmente ironico dei paradossi e delle ingiustizie della società iraniana. Ma l'amara ironia di Panahi non serve a confortarci mentre accompagniamo il nostro gigante buono al suo appuntamento col destino che conosciamo già.

Un film desolante ma poetico, essenziale eppure ricco, grazie a due elementi che splendono nella loro semplicità: la regia, rigorosa ed estrosa ad un tempo, e la performance recitativa, misurata e toccante, offerta dall'esordiente Hussain Emadeddin nel ruolo di Hossein, indimenticabile sfinge vagabonda per le strade di Tehran, emblema di milioni di vite "normali" incrinate dall'ingiustizia, e spezzate nel sangue.

Movieplayer.it

4.0/5