Recensione Andersen - Una vita senza amore (2006)

La versione che Ryazanov ci offre del percorso umano e artistico di Hans Christan Andersen risente, sia in positivo che in negativo, di una concezione del cinema amabilmente inattuale, dai tratti per molti versi stantia, ma ancora capace di esercitare particolari suggestioni.

C'era una volta lo scrittore di fiabe

Superato lo stupore per l'eccentrica decisione di distribuire in piena estate un film come Andersen - Una vita senza amore, anomalo biopic dedicato al grande scrittore danese, qualcosa va detto per inquadrare meglio l'operazione. Il regista è l'ottantenne Eldar Ryazanov, monumento in carne ed ossa del cinema sovietico, che pare abbia cominciato a seguire il progetto una ventina di anni fa, trovando in tempi più recenti persino il sostegno di Putin. A ciò va aggiunto che il film risulta co-prodotto con fondi italiani, per cui non sorprende che la Medusa lo abbia distribuito nelle nostre sale. Qui, però, nascono le magagne. Come spesso accade, purtroppo, nel caso di pellicole provenienti dall'Europa Orientale, l'edizione italiana appare veramente poco curata, a partire dalle cose più elementari. Un primo segno di trascuratezza si nota addirittura nei cartelli che annunciano il regista (e sceneggiatore), per il cui nome proprio è ammessa anche la grafia El'dar. Ma di certo farebbe uno strano effetto all'interessato sapere che sulla pellicola è stato impresso il nome El'gar Ryazanov, con una "gi" truffaldina, un po' come se Martin Scorsese si trasformasse per i distributori italiani in Martin Scortese! Detto ciò, non particolarmente brillante ci è parso il doppiaggio, ma anche a questo siamo ormai abituati, quando si tratta di opere provenienti da determinate aree geografiche. Più fastidioso è che alcuni momenti di musical, con brani cantati in russo di cui si poteva intuire la contiguità tematica con le esperienze private e letterarie del protagonista, non abbiano beneficiato dei sottotitoli. Peccato, perché una confezione studiata con maggiore accuratezza avrebbe senz'altro giovato alla fruizione di un film, già di suo non appetibile da tutti i palati.

Liquidata così l'edizione italiana, rimane l'impressione di una pellicola totalmente fuori dal tempo. La versione che Ryazanov ci dà del percorso umano e artistico di Hans Christan Andersen risente infatti, sia in positivo che in negativo, di una concezione del cinema amabilmente inattuale, dai tratti per molti versi stantii, ma ancora capace di esercitare particolari suggestioni. La Danimarca dell'Ottocento è qui un mirabile artificio, con Odense (città natale dello scrittore) e Copenaghen ricostruite a San Pietroburgo in studio, o nelle sale sfarzose dove una volta passeggiavano gli Zar. Nel film vi passeggiano invece i reali di Danimarca, un censore implacabile e altri personaggi di corte, con la cui autorità un letterato di quel calibro si dovette in qualche modo confrontare. Ma il rapporto conflittuale tra creazione artistica e potere (vi si può intravedere un riflesso della censura sovietica di cui lo stesso Ryazanov poté fare conoscenza, a suo tempo) non è il fulcro stabile della narrazione, che ondeggia semmai sulla scia di spinte assai diversificate tra loro. Nel lungo arco temporale affrontato dall'opera (che dura, del resto, la bellezza di 137 minuti) si snoda un percorso che va dall'infanzia alla senilità del protagonista, raccogliendo drammi famigliari, stati di euforia dovuti ai primi successi letterari, episodi di crudeltà popolare (come l'assalto dei suoi connazionali alle proprietà dei commercianti ebrei) e delusioni amorose. Soprattutto su queste si insiste molto, mettendo particolarmente in rilievo la superficialità della cantante svedese Jenny Lind, di cui Andersen era inutilmente innamorato, e la delicata figura di Henrietta, figlia dell'ammiraglio Wulf con tratti da eroina romantica.

La grande professionalità del buon, vecchio cinema russo di stato sembra rivivere non solo nella bravura degli interpreti, ma anche nelle fastose scenografie, nella cura dell'elemento fotografico, in quelle invenzioni di regia che provano a vivacizzare ciò che rimane, in fin dei conti, un valido esempio di teatro filmato. Già, perché i limiti di Andersen - Una vita senza amore sono anche quelli di un prodotto sicuramente ben fatto, ma privo di slancio, appiattito per quasi tutta la durata dietro i drammi sentimentali e le altre situazioni di vita in cui lo scrittore di fiabe viene raffigurato. Molto meglio, a dire il vero, quegli inserti meta-narrativi in cui prendono corpo i racconti di Andersen e altre derive fantastiche, affrontati dal cineasta russo con maggior estro e libertà stilistica. Sono sporadici momenti in cui il senso della meraviglia si afferma pienamente e l'odore di muffa sparisce, come per magia, da questa insolita pellicola.