Recensione Le regole dell'attrazione (2002)

Avary riesce in pieno, come sceneggiatore e come regista, a rappresentare attraverso il medium cinematografico la freddezza, il distacco, il sottile sarcasmo ed il cinismo dello stile narrativo dello scrittore americano Bret Easton Ellis.

Avary tra forma e contenuto

Lauren è giovane, bella e vergine, in attesa di concedersi al ragazzo giusto; e s'innamora di Sean. Sean è un giovane cinico e freddo, spacciatore per hobby, che s'interessa a Lauren, ma solo perché crede sia lei a lasciargli poetiche quanto anonime lettere d'amore. Paul è intelligente e sarcastico, è l'ex di Lauren ed è gay; e s'innamora anche lui di Sean. Ma Sean non è in grado di amare nessuno, nemmeno se stesso, tantomeno gli altri.
È intorno a queste linee principali che si dipana - arricchita di altri personaggi e situazioni - la trama de Le regole dell'attrazione, trasposizione cinematografica dell'omonimo romanzo di quel grande osservatore, studioso e sarcastico fustigatore delle perverse dinamiche sociali degli ultimi due decenni del XX secolo che è Bret Easton Ellis.

A portare sul grande schermo il romanzo di Ellis e tutte le sue tematiche (il vuoto pneumatico esistenziale e di valori, la droga ed il sesso come sfizi ed evasioni ludiche fini a se stesse e comunque insoddisfacenti, la dissoluzione etica di ogni forma di tessuto relazionale) è Roger Avary, noto soprattutto come regista di Killing Zoe e ancor di più co-sceneggiatore di film come Pulp Fiction e Una vita al massimo. Adattare per il cinema romanzi dalla prosa tanto particolare come quelli di Ellis è un'impresa particolarmente ardua, ma Avary è riuscito in pieno, come sceneggiatore e come regista, a rappresentare attraverso il medium cinematografico la freddezza, il distacco, il sottile sarcasmo ed il cinismo dello stile narrativo dello scrittore americano.
Il risultato è quello di un film tanto forte per i temi e le vicende che racconta (piene di sesso estremo, (ab)usi di droga, violenze emotive più che fisiche - e per questo ancora più tremende), quanto distaccato, freddo e quasi ludico nella messa in scena. Una messa in scena basata oltre che sulle caratteristiche appena citate, su alcuni artifici stilistici che per stessa ammissione di Avary sono stati la chiave di volta nel lungo e travagliato processo di adattamento del romanzo. Artifici rappresentati da inversioni o accelerazioni temporali delle immagini e da un uso dello split screen che al tempo stesso omaggia e supera l'uso che ne veniva fatto negli anni Settanta per trasformarlo in qualcosa in grado di arricchire la pellicola non solo a livello visiva ma anche narrativo, regalando allo spettatore nuovi punti di vista e quindi nuovi livelli di significato su quello cui assiste. Una messa in scena che in alcuni punti ricorda - per il suo sguardo freddo e distaccato ma al tempo stesso tanto carico di emozionalità sotto la superficie - quello dello Stanley Kubrick di Arancia meccanica, altro film che raccontava l'orrore attraverso un uso pop e ludico dell'immagine filmica.

Il mezzo è il messaggio, diceva qualcuno, e proprio per questo se non si comprende e accetta nel modo giusto lo stile registico di Avary (e ugualmente, quello letterario di Ellis), il film non si disvelerà allo spettatore nella sua stratificazione di temi e situazioni, risultando un glaciale ed estremizzato resoconto della vita e degli stravizi dei college americani e dei suoi frequentanti. Ma se si decifra invece quello che Avary mette in scena con apparenti e compiaciuti distacco e cinismo ci si troverà di fronte ad una storia struggente, dove i protagonisti, persino i più meschini, sono raccontati con sarcasmo ma allo stesso tempo con un malcelato affetto dal regista; personaggi (chi più chi meno) vuoti e vanesi, superficiali e soli nel senso più esistenziale del termine, ma drammaticamente autoconsapevoli della loro situazione, come testimoniato dalla battuta che chiude il film. Quello che viene mostrato nel film di Avary è spesso sgradevole ed eccessivo, ma non è mai compiaciuto né ripiegato su se stesso; i personaggi del film vivono la loro vita in maniera palesemente conflittuale: c'è il riconoscimento della tensione verso l'Amore, ma allo stesso tempo quello del propria inadeguatezza. E proprio da questa conflittualità inferiore nasce lo stimolo critico per un'accettazione che allo stesso tempo suona come un superamento.
Al contrario di quanto avviene invece per alcuni personaggi di contorno (citiamo quello della sempre bellissima Jessica Biel o quello di Kip Pardue): personaggi questi privi di quegli elementi di conflitto interiore, di consapevolezza del loro essere "twisted" ed inconsciamente compiaciuti di questa loro unidirezionalità (che è comunque quella che nella disgregazione della nostra società può portare al "successo" - non a caso il personaggio della Biel, ci viene rivelato quasi all'inizio del film, diverrà la moglie di un senatore); e per questo esistenzialmente ed emotivamente morti.

Attraverso una forma coinvolgente ed innovativa, estetica ma non estetizzante, perfetto specchio del contenuto, l'intento de Le regole dell'attrazione, non è quello di effettuare una descrizione moralista o nichilista di un mondo dai valori sociali e dai rapporti umani in disfacimento, ma quello di mostrare - anche in modo algido e spietato - alcuni eccessi che sono il simbolo parossistico di dinamiche contemporanee, di mettere quindi lo spettatore di fronte ad uno specchio (deformante) e di mostrare i lati oscuri dell'inconscio collettivo per quello che sono.