Recensione La donna che visse due volte (1958)

"Quello che mi interessava erano gli sforzi che faceva James Stewart per ricreare una donna, partendo dall' immagine di una morta" (Alfred Hitchcock nella celebre intervista-libro di François Truffaut IL CINEMA SECONDO HITCHCOCK)

Vortice fatale

Johnny "Scottie" Ferguson (James Stewart) è un poliziotto cinico e razionale, almeno fino a quando non scivola inseguendo un malvivente sui tetti di San Francisco e si trova sospeso nel vuoto, aggrappato ad una grondaia. Atterrito dalle grandi altezze, Scottie non può far altro che assistere impotente alla caduta mortale del suo collega, che tenta di soccorrerlo. È il primo segnale, il primo spietato avvertimento, delle conseguenze alle quali condurrà la fobia del protagonista di La donna che visse due volte, o meglio Vertigo, simbolico titolo originale della pellicola di Alfred Hitchcock, la più complessa e visionaria del regista inglese, nella quale l'efficacia del linguaggio cinematografico si sposa con una sceneggiatura ambigua e inquietante, "malata" (come sarà del resto quella di Marnie) e aperta a diverse letture e interpretazioni.

Sofferente di vertigini, Scottie abbandona la polizia, temendo di essere confinato ad un ruolo d'ufficio, ma viene incaricato da un ex compagno di studi, Gavin Elster, di pedinare la moglie Madeleine (Kim Novak), colta da improvvise crisi d'identità e autrice di azioni quanto meno insolite. La donna sembra, infatti, essere posseduta dallo spirito di un'antenata, Carlotta Valdes, costretta a separarsi dalla figlia e per questo suicida a 26 anni, la stessa età di Madeleine: nel suo vagabondare, la moglie dell'uomo visita la tomba della bisnonna, risiede per qualche ora al McKittrick Hotel, che presto si scoprirà essere la precedente dimora di Carlotta, e soprattutto si specchia nel suo ritratto, esposto al museo del Palazzo della Legione d'Onore. È la reincarnazione, soprattutto fisica, ad emergere distintamente agli occhi di Scottie, e dello spettatore; Madeleine indossa i gioielli ereditati dalla defunta, si pettina i capelli nello stesso modo e compra un bouquet di fiori identico a quello esibito dalla Valdes nel dipinto. Scottie, restio a credere all'ipotesi del soprannaturale, si convince infine che Madeleine si stia trasformando nella perfetta copia di Carlotta. E quella che per l'uomo - inizialmente - era solo una sfida, poco a poco si tramuta in una missione. Il costante pedinamento procede infatti in parallelo alla progressiva fascinazione di cui rimane vittima Scottie, la cui lucidità si sgretola di fronte al disorientamento della donna (bionda e algida, come tutte le attrici feticcio di Hitchcock, da Grace Kelly a Tippi Hedren), fragile e romantica, di una struggente quanto malinconica bellezza. L'impianto investigativo - tratto dal racconto di Pierre Boileau e Thomas Narcejac - perde completamente la sua rilevanza, lasciando che il film si concentri sulla vertigine amorosa di Scottie, sul forte sentimento che si stabilisce dopo il primo - sventato - tentativo di suicidio di Madeleine nelle acque della baia.

Precipitare nell'abisso dell'ignoto, come la notte del tragico inseguimento sul tetto, cadere preda delle vertigini: è questa l'ossessione di Johnny Ferguson, che prende insistentemente corpo nell'universo finzionale, attraverso un sistema di ricorrenze e ripetizioni, riecheggianti il motivo della spirale. La figura della spirale, che emerge fin dai titoli di testa realizzati da Saul Bass - quasi a voler circondare e ipnotizzare lo spettatore -, si concretizza in molteplici dettagli: le sedie dell'appartamento di Midge (la quasi - fidanzata di Scottie all'inizio del film) sulle quali Scottie riconosce di soffrire di acrofobia (appunto la paura dell'altezza), l'acconciatura di Madeleine, il bouquet di fiori, il lampadario del McKittrick Hotel, i cerchi concentrici della sequoia del parco naturale nel quale si rifugiano Madeleine e Scottie, ormai uniti a doppio nodo da un destino di vita e morte. Il leitmotiv del movimento a spirale, che quindi permea l'intera narrazione, è legato alle paralizzanti vertigini di Scottie: non è un caso che lo stesso elemento visivo riappaia nell'incubo che sconvolge l'uomo dopo che Madeleine si è suicidata dal campanile della missione spagnola di San Juan Batista. L'ex poliziotto sembra nuovamente aver mancato ai suoi obblighi: la sua debolezza è costata la vita ad un'altra persona, la donna che avrebbe dovuto proteggere e salvare.
E proprio le vertigini, rese visivamente da Hitchcock mediante una carrellata indietro combinata a una zoomata in avanti, non rappresentano solo uno smarrimento fisico, e quindi il conflitto vissuto da Scottie tra paura e desiderio di cadere nel vuoto; esse simboleggiano soprattutto la sua discesa morale e psicologica, ossia la lotta interiore tra repulsione e attrazione verso il fallimento, la disfatta, la perdita.

Piegato in uno stato di depressione, Scottie rinasce grazie all'incontro casuale con una donna straordinariamente simile a Madeleine. L'inseguimento può quindi riprendere con maggiore intensità di prima. L'ossessione si nutre di nuova linfa vitale: per Scottie è pronta una seconda occasione, un nuovo oggetto del desiderio, Judy Barton - capelli scuri ma sguardo familiare -, disposta a farsi manipolare per assomigliare a chi non esiste più, disposta a tutto pur di farsi amare...
Impossibile andare oltre, per rispetto di quanti ancora non hanno visto questo film coinvolgente, costellato di seducenti invenzioni cromatiche, venate di sfumature oniriche capaci di svelare i lati più estremi e oscuri della psiche umana. Emblematico è l'incubo vagamente allucinatorio e schizofrenico di Scottie, virante al rosso, colore della passione e del tormento, e popolato da funesti presagi e da frammenti di un passato che non cessa di braccarlo: le immagini del processo, di Gavin Elster e di Carlotta Valdes - racchiusi con Scottie in un triangolo mortale -, scorrono senza sosta nella mente turbata dell'ex poliziotto, divorata dal senso di colpa e dal folle amore per Madeleine.

Permeato dalla filosofia personale di Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte è anche una profonda riflessione sulla sottile linea di confine tra realtà e rappresentazione, verità e illusione, opposizioni che, da sempre, sostengono e alimentano il discorso cinematografico.