Jafar Panahi nel 2010 aveva subìto una condanna per propaganda anti-statale, che prevedeva per venti anni l'impossibilità di girare film, espatriare ed avere contatti con i media. Ultimamente però, essendosi recato alla Procura di Teheran e avendo protestato contro la detenzione del collega regista Mohammad Rasoulof , è stato arrestato e condannato a sei anni di reclusione.
I suoi film - nove girati dopo il divieto - sono realizzati utilizzando attrezzature facilmente accessibili e attori spesso non professionisti. Non ricevono alcun finanziamento governativo e sono banditi in Iran. Il corpus di opere di Panahi rappresenta, per molti versi, un passaggio dal cinema come industria al cinema come mezzo e il suo linguaggio cinematografico si spinge ai limiti concepibili della rappresentazione narrativa. In un paese come l'Iran, in cui ogni film deve essere approvato dalla censura, il fatto stesso di un film al di fuori di quella cornice, è una sfida. Di seguito vi parleremo di alcune opere che mettono in primo piano il suo ultimo atto di disobbedienza.
1. Il palloncino bianco, 1995
Il film d'esordio di Panahi è una storia ingannevolmente semplice: Razieh, una bambina di sette anni, chiede alla madre i soldi per comprare un pesce rosso alla vigilia di Capodanno, solo per perdere ripetutamente i soldi che le sono stati dati in una serie di incontri amichevoli e ostili con i passanti.
Scritto insieme ad Abbas Kiarostami - uno dei registi più importanti della new wave iraniana, per il quale Panahi ha iniziato come assistente alla regia - il dolce divertimento dell'avventura di Razieh cela un racconto profondamente umanista, che mostra gli eventi quotidiani del mondo attraverso le prospettiva trascurata di un bambino.
Il palloncino bianco ha gettato le basi per l'attenzione di Panahi nei confronti dei soggetti emarginati e la capacità del cinema non solo di osservare, ma di guardare verso l'esterno e attraverso.
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2. Fuorigioco, 2006
L'ultimo lungometraggio di Panahi prima della condanna del 2010, segue un gruppo di fanatiche di calcio che cercano di assistere a una partita tra Iran e Bahrain. L'unico inconveniente? Alle donne è vietato assistere alle partite in Iran, pena l'arresto.
Non è difficile vedere cosa ha spaventato il governo iraniano riguardo alla pratica sempre più ribelle di Panahi. Fuorigioco, girato ai margini di una vera e propria partita di calcio a Teheran, investe in un naturalismo così completo che i confini tra finzione e realtà, resistenza immaginata e sfida nel mondo reale svaniscono come un miraggio.
Nonostante il suo realismo da documentario, un curioso incanto percorre questa polemica femminista. Il cinema diventa un indicatore per gli stati di appartenenza intrecciato con i meccanismi legali e politici che decidono tali destini.
3. Questo non è un film, 2011
Nel 1929, il surrealista belga René Magritte dipinse Il tradimento delle immagini, in cui appare una pipa elegantemente resa con le parole "Ceci n'est pas une pipe". L'opera richiamava l'attenzione sui limiti della rappresentazione, e sui labili confini che esistono tra immagine e realtà.
Il titolo ironico di Panahi si basa su molte delle stesse idee, portandole dal regno filosofico a quello politico per esaminare i problemi e le possibilità nella tensione tra censura ed espressione creativa. Questo non è un film è documentato su iPhone e telecamere all'interno dell'appartamento di Panahi mentre era agli arresti domiciliari, e ritrae un regista più saldamente attaccato al suo mestiere che mai.
È un film che spoglia l'arte del cinema nella sua forma più nuda e austera, solo per rivelare l'esilarante dinamismo narrativo e estetico del cinema stesso.
4. Taxi Teheran, 2015
In Taxi Teheran, Panahi recita ancora una volta nei panni di se stesso, questa volta avventurandosi fuori dal suo appartamento per guidare un taxi per le strade di Teheran, raccogliendo vari passeggeri interpretati da attori non professionisti. Il film continua l'indagine sulle possibilità democratiche del cinema, che diventa in questo film uno spaccato di vita raccontata non solo dal popolo iraniano ma attraverso di esso. Mentre Panahi vaga per le strade di Teheran, regolando amabilmente la sua telecamera sul cruscotto, interpreta non solo il personaggio di un tassista, ma anche quello di Jafar Panahi.
È un film sull'illusione di controllo che il cinema può tentare di imporre a un mondo indisciplinato e caotico. Il cinema, ci ricorda Taxi Teheran, è un processo allo stesso tempo autentico e non autentico: può evocare la magia dal mondano e mascherare la magia come mondanità.
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