Trento Film Festival: cinema, territorio e radici

Abbiamo potuto immergerci, per tre giorni, nella cornice di uno dei più antichi festival cinematografici italiani, che è contemporaneamente tra quelli più fortemente legati al territorio.

Una suggestiva immagine del film Alberi che camminano
Una suggestiva immagine del film Alberi che camminano

In un periodo in cui i festival cinematografici (e gli eventi culturali in genere) soffrono di restrizioni continue, e vedono spesso messa in discussione la loro stessa sopravvivenza, una manifestazione come il Trento Film Festival sembra un po' un'isola felice; una realtà con radici solidamente piantate nel territorio, dalla storia ormai più che sessantennale (la prima edizione è del 1952) e dall'identità praticamente impossibile da scalfire. Una manifestazione che è "piccola" e grande insieme: imparagonabile, per scelta, ai grandi eventi che attirano star, lustrini e blockbuster, forte di una proposta tematica riconoscibilissima, cresciuta e trasformatasi insieme alla comunità che la ospita; e, insieme, capace di aprirsi all'esterno e alle esigenze di un universo globalizzato, di includere, di parlare linguaggi che vadano oltre lo schermo cinematografico.

"Il nostro è un caso molto fortunato", ciha detto Sergio Fant, da quattro anni responsabile della selezione del festival. "Questo festival esiste infatti da 63 anni, ed è gestito da un'associazione di cui fanno parte le istituzioni locali; non quindi è necessario, per noi, o comunque lo è in modo più marginale, andare a chiedere finanziamenti ogni anno. Per noi anche le attività permanenti, nei mesi in cui il festival non si svolge, sono una grande risorsa: molti festival accumulano tante risorse che poi vengono bruciate in pochi giorni, mentre Trento ha una tradizione di distribuzione di film e di circuitazione durante l'anno. L'anno scorso, abbiamo fatto 120 serate in giro per l'Italia con proiezione dei film passati al festival; inoltre, qui a Trento abbiamo fatto una specie di 'conto alla rovescia', con 8 serate preparatorie nei due mesi precedenti l'inizio della manifestazione".

Un "mondo" abbastanza lontano da quello dei festival generalisti. "Io ho lavorato anche per Venezia e Locarno", ha proseguito Fant, "e difficilmente lì uno spettatore viene a chiederti un consiglio su quale film vedere, cosa che invece accade sovente da noi. Noi abbiamo un pubblico affezionato e numeroso, oltre che diversificato; cerchiamo sempre, pur senza fare compromessi, di tener presenti tutte le loro esigenze. A me, poi, piace costruire percorsi e farlo liberamente, senza le costrizioni legate alle première, ai film nuovi o appena usciti: in un festival tematico come questo, possiamo spaziare con una varietà di sguardi e proposte, che magari un festival generalista non può permettersi".

Un'immagine del documentario Jeff Lowe's Metanoia
Un'immagine del documentario Jeff Lowe's Metanoia

Un concorso nel segno della varietà

Erri De Luca e Mauro Corona in un'immagine del film Alberi che camminano
Erri De Luca e Mauro Corona in un'immagine del film Alberi che camminano

Nelle tre giornate che abbiamo trascorso nel capoluogo trentino (3, 4 e 5 maggio) abbiamo potuto affacciarci su una finestra limitata, per forza di cose parziale, dell'ampia selezione del festival; finestra comunque esemplificativa della sua varietà e del suo eclettismo di sguardo. Le proposte del concorso, ad esempio, pur mantenendo il tema della montagna come motivo forte, hanno mostrato una notevole diversificazione, sia di formati che di temi: si va dal toccante documentario Jeff Lowe's Metanoia, di Jim Aikman (preceduto dal corto Klang der stille, in qualche modo preparatorio) dedicato a vita e imprese del grande alpinista Jeff Lowe, ora affetto da SLA, all'evocativo Alberi che camminano di Mattia Colombo, ideato da Erri De Luca (qui la recensione, e qui la nostra intervista allo stesso scrittore e all'amico e collaboratore Mauro Corona); dal corto Houses with Small Windows, in cui le montagne del Kurdistan turco fanno da contorno alla crudele pratica dei delitti d'onore, all'impressionante Life in Paradise di Roman Vital. Quest'ultimo, in particolare, mette in scena con straordinario rigore, nell'idilliaco paesaggio delle Alpi svizzere, l'emarginazione e la sistematica umiliazione degli immigrati clandestini, quelli che non hanno ottenuto lo status di rifugiato e vengono rinchiusi in una struttura equivalente (e solo apparentemente più "umana") ai nostri Centri di Detenzione Temporanea.
In queste proposte, quindi, la montagna è di volta in volta testimone, co-protagonista, o forza che instaura una dialettica, rispetto alle storie raccontate; storie delle tipologie più varie, calate in contesti culturali anche molto diversi tra loro.

Grandi narrazioni, sguardi settoriali

Haider: una scena
Haider: una scena

Il focus che quest'anno il festival ha voluto dedicare all'India ci ha mostrato, tra le altre cose, il dramma Haider, moderna rilettura dell'Amleto calata nel Kashmir conteso tra indù e musulmani, già visto (e apprezzato) nel corso dell'ultimo Festival del Film di Roma; mentre, nella sezione dedicata alle anteprime, abbiamo potuto assistere a due road movie dal grande respiro, in cui le tematiche familiari si mescolano a quelle politiche, entrambi con uno sguardo improntato a realismo, ma tutt'altro che rassegnato. Parliamo, nella fattispecie, del turco Come to My Voice, diretto da Hüseyin Karabey, ambientato nel Kurdistan turco e incentrato sulla ricerca, da parte di una ragazzina e di sua nonna, di una pistola che potrebbe garantire la libertà al capofamiglia accusato di terrorismo; e del pakistano Dukhtar di Afia Nathaniel, che mostra la fuga tra i monti del Pakistan di una ragazzina e di sua madre, quest'ultima decisa ad evitare alla figlia la sorte (che già toccò a lei anni prima) del matrimonio combinato. Opere forti nei temi, ma con l'occhio rivolto al pubblico, in cui l'epica del viaggio e della fuga si mescola alla presentazione, senza edulcorazioni, di una realtà difficile, contraddittoria, spesso spietata.

Una sequenza del film Dukhtar
Una sequenza del film Dukhtar

Durante questi tre giorni, abbiamo inoltre potuto apprezzare una piccola parte della rassegna Eurorama, curata dal Museo degli Usi e Costumi di San Michele all'Adige, e ospitata dalla manifestazione trentina; questa prevede una selezione di documentari etnografici di varia provenienza, già premiati in festival europei specializzati. Una sezione che ha visto la proiezione, durante la serata del 3 maggio, del trittico di corto-mediometraggi Shepherd Service, May Festival e Mascherate e riti dell'inverno nel Trentino; rispettivamente dedicati ad alcune realtà settoriali di Serbia (con l'esplorazione della giornata di un pastore che vive in una roulotte nella campagna, senza energia elettrica), Croazia e Trentino. La selezione ha visto inoltre la presentazione del mediometraggio portoghese Oh My Fisherman, My Old Man, ambientato nell'isola di Porto Formoso, nelle Azzorre; incentrato, quest'ultimo, sulla difficile mediazione tra le ragioni del patrimonio (con la preservazione del porto storico e del castello) e quelle dell'occupazione (con la costruzione di un nuovo molo e di nuove barche).