Recensione The Millionaire (2008)

Una favola d'amore, dolore e denaro che strizza l'occhio a Bollywood. Danny Boyle adegua il linguaggio ai nostri tempi nel raccontare la disperazione dell'infanzia e le difficoltà del crescere, ma anche la gioia del successo.

Sì, la vita è tutta un quiz!

Che Danny Boyle sia un regista eclettico, che ama prendersi i suoi rischi per battere ogni volta una strada diversa nel suo percorso cinematografico, ce lo ha più volte dimostrato nella sua già ricca carriera, che lo ha consacrato in pochi anni uno dei registi più interessanti delle ultime generazioni. Nel suo errare tra diversi generi fa tappa ora nel regno di quella che può essere considerata (a torto o a ragione) la nemica più fastidiosa del cinema: nostra signora televisione. Prendere infatti uno dei suoi programmi di maggior successo (addirittura mondiale) poteva sembrare infatti una sfida assurda e impossibile da vincere, considerati gli ovvi pericoli che un tale incontro avrebbe potuto riservare. Ebbene, Boyle non solo ha saputo modellare al meglio la materia che s'è trovato tra le mani, ma ha addirittura incantato il pubblico americano (e di Toronto, che gli ha tributato per plebiscito il premio più ambito) aprendosi la strada, molto probabilmente, a un posto in prima fila alla prossima cerimonia degli Oscar. Rendendo omaggio a quella Bollywood tanto di moda negli ultimi tempi, il regista di Manchester si trasferisce in terra indiana, a Mumbai per la precisione, per raccontare la fuga per la vittoria di un bambino già condannato in tenera età, ma che riesce a sfuggire le miserie di una vita impossibile da affrontare, preservando la propria purezza.

In fondo però il successo oltreoceano di The Millionaire non stupisce poi così tanto. Pur ambientato in India, con i suoi scomodi contrasti e le differenze culturali, il film di Boyle non fa altro che celebrare il più classico sogno americano: il ragazzo venuto dal nulla che supera tutte le difficoltà e, da solo, riesce a farcela, a cambiare per sempre il corso della sua vita. In questo caso, il percorso di riscatto del giovane Jamal (interpretato nella fase 'adolescente' da Dev Patel, esordiente al cinema ma già visto nella serie tv Skins) è scandito dalle tappe che profumano di rupie del celebre quiz televisivo Chi vuol essere milionario?. Torturato dalla polizia, decisa a mascherare il sicuro imbroglio, Jamal deve spiegare come faccia a conoscere tutte le risposte, pescando nei terribili ricordi della sua giovane, ma tormentata esistenza. Un'infanzia spezzata, il difficile rapporto con il fratello e un amore "per sempre" prendono vita nei continui flashback, mentre la domanda finale, quella da 20 milioni di rupie sta per essere formulata, e la ragazza dei suoi sogni deve ancora essere salvata. A sceneggiare questa favola d'amore, dolore e denaro è Simon Beaufoy che si lascia andare a un'enfasi eccessiva di situazioni e conflitti e a dialoghi puerili che possono trovare terreno fertile nell'animo degli spettatori meglio predisposti nei confronti dell'ingenuità.
Boyle da parte sua disintegra le illusioni del Neorealismo nel raccontare la disperazione dell'infanzia e le difficoltà del crescere, ma anche la gioia del successo. E' un'altra epoca, il destino delle pedine in campo è ben diverso e anche il linguaggio va adeguato alla frenesia dei tempi moderni: un montaggio spettacolare mitraglia lo schermo di immagini dai colori saturi, di inseguimenti, di lacrime e sangue versati e già asciugati che sporcano di tanto in tanto la spensieratezza incosciente che pervade comunque tutta l'opera. Attraverso l'accumulo e l'esaltazione delle possibilità del cinema si costruisce un ampio spazio di riflessione che non intrappola però la storia in una visione impegnativa, concedendosi così tante esagerazioni in termini di coincidenze e di azzardi narrativi che seppure spesso manchino di un'emozione sincera, forniscono comunque un intrattenimento intelligente. Nel lungo e frenetico videoclip orchestrato da Boyle ci finiscono dentro le contraddizioni dell'India, le sterminate baraccopoli sommerse dall'immondizia e i paesaggi da cartolina, lo squallore delle condizioni di vita dei più poveri e la gioia del vivere comunitario, e purtroppo anche qualche sciocchezza nei riferimenti religiosi. L'happy ending è azzeccato per chi lo aspetta, il balletto senza senso finale ribadisce la leggerezza dell'operazione, ma resta da capire quanti sapranno andare oltre i ricchi premi e cotillon. 'I sogni hanno questo di volgare: che tutti sognano' scriveva Pessoa.