Recensione Tutti i rumori del mare (2012)

Federico Brugia, regista di spot e videoclip, per il suo esordio nel lungometraggio sceglie un linguaggio criptico ma affascinante, in cui l'introspezione psicologica è preponderante, e molto è demandato agli sguardi, e ai silenzi, dei due bravissimi protagonisti.

Rumori (di fondo) dell'anima

Un criminale senza nome. Senza passato, senza sfondo, apparentemente senza reazioni. Un appellativo, X, che rappresenta la pura e semplice incognita, che tale resterà fino alla fine, della sua vita. Una ragazza dallo sguardo limpido, apparentemente inconsapevole di ciò che le accade intorno; un passato quasi altrettanto misterioso, certamente doloroso in ugual misura. Un viaggio da Budapest all'Italia nato come "consegna" della merce umana rappresentata dalla giovane Nora, che diventerà invece, per entrambi i protagonisti, viaggio dentro se stessi. E che segnerà, per l'uomo, il riemergere inatteso di un'etica, di un sentire umano, di una problematicità di scelte. Il riaffacciarsi imprevisto di un'identità, insomma, da (ri)definire grazie a quell'esile corpo estraneo con cui è entrato in relazione; e che ora non può cancellare, né tantomeno eliminare, come gli viene chiesto, con un colpo di pistola. Riacquistare un'identità, e un'umanità, significherà per l'uomo scontrarsi con coloro che dall'assenza di essa traevano giovamento e profitto; ma gli scontri e i pericoli, esterni ed interni, non basteranno a fermare un processo ormai avviato, quasi indipendente dalla stessa volontà di colui che ne è protagonista.


Un titolo come Tutti i rumori del mare può apparire curioso, quasi enigmatico, per un film a metà strada tra il noir urbano e il road movie esistenziale, in cui il mare stesso compare solo nell'ultima sequenza, che spiega e sostanzia quell'espressione. Una contestualizzazione anche della locandina, con un'immagine che ricorda un po' certe pellicole del Takeshi Kitano di qualche anno fa, quello che aveva attirato l'attenzione della critica europea con quegli scoppi di violenza improvvisa alternati a lirici momenti contemplativi, spesso incentrati proprio su una spiaggia e sulle sconfinate distese d'acqua marina. Federico Brugia, è bene chiarirlo, non è Kitano, e probabilmente nemmeno vuole esserlo; pur avendo alcune matrici comuni col regista nipponico (il polar francese, e i film di Jean-Pierre Melville, debito da lui stesso riconosciuto) il suo procedimento è ben distinto da qualunque suo collega contemporaneo, pur denunciando una tendenza all'introspezione e all'estetizzazione della materia che trova omologhi in molti esempi di cinema orientale ed europeo. I silenzi giocano un ruolo fondamentale, nel film di Brugia, così come le sospensioni e il clima rarefatto, l'incedere avvolgente e quasi liquido della vicenda, spezzato da squarci di flashback improvvisi, quasi onirici, che fanno intuire, più che mostrarcelo, il passato dei due protagonisti.

Brugia, regista di spot e videoclip, per il suo esordio nel lungometraggio sceglie un linguaggio non immediatamente fruibile, in cui l'introspezione psicologica è preponderante rispetto alle ambizioni sociologiche (appena accennate) e in cui molto è demandato agli sguardi, e ai silenzi, dei suoi due protagonisti, i bravissimi Sebastiano Filocamo e Orsi Tòth. Colpiscono, nell'impianto visivo del film, i colori volutamente desaturati, l'insistenza sui paesaggi, tendenti al grigio e indifferenti, spazi aperti che quasi violentano l'essenza stessa del road movie, comunicando disagio e oppressione anziché senso di liberazione. Gli stessi momenti più onirici, gli arabeschi disegnati dalla mente della giovane protagonista, composizioni appena accennate di inchiostro nero che sporcano il quadro, i già ricordati flashback che ci mostrano frammenti del passato dell'uomo, sono espedienti tutti interni a un "gioco" psicologico di cui riusciamo a intuire i contorni, senza tuttavia mai penetrarne l'essenza. Il limite del film di Brugia, infatti, al di là della sua innegabile eleganza visiva, sta proprio in quella che appare una voluta freddezza nella narrazione, un'ostentata cripticità e un gioco a sottrarre nella definizione dei due protagonisti, che tuttavia rischia di far apparire meccaniche e poco chiare le loro evoluzioni. Il "calore" che, in particolare, il personaggio di Filocamo vorrebbe poco a poco far intravedere, resta altrettanto impenetrabile della sua ostentata freddezza iniziale, e la sua trasformazione ci risulta altrettanto criptica nelle motivazioni.

Così, un noir atipico e d'autore come Tutti i rumori del mare (che ritaglia anche un po' di spazio a due camei curiosi, anche se non molto funzionali alla trama, come quelli di Malika Ayane - moglie del regista e autrice della canzone dei titoli di coda - e Rocco Siffredi) risulta un esperimento senz'altro interessante, valido nella concezione e nella messa in scena, ma forse eccessivamente ermetico (e in parte difettoso) nella narrazione. Un esordio che comunque vale una visione, specie per la bontà dell'idea e per la personalità mostrata dal regista, possibili indicatori per un nuovo nome da tener d'occhio, nel variegato panorama del cinema indipendente nostrano.

Movieplayer.it

3.0/5