Recensione Falling (2006)

Il 'Grande freddo' declinato all'austriaca ondeggia tra la nostalgia e lo psicologismo, senza commovere né appassionare.

Reincontrarsi per lasciarsi andare

Cinque amiche, ex compagne di scuola, si ritrovano dopo quindici anni per partecipare a un funerale. Michel è stato l'insegnante che più di tutti ha segnato la loro formazione e ha influenzato la loro crescita e che, in un modo o nell'altro (con due di loro ha avuto anche delle relazioni sentimentali), più ha dato impulso alle loro giovani e passionali vite. La sua morte dà alle cinque donne l'occasione per raccontarsi, più o meno sinceramente, ciascuna con le sue reticenze, ognuna con le sue bugie, di tracciare bilanci, di esporre i propri sogni e le proprie frustrazioni. Per due giorni, ininterrottamente, il gruppo sarà di nuovo riunito, come uno specchio in cui riflettersi alla luce degli anni trascorsi.

Falling tenta di distinguersi nell'affollato filone nostalgico esistenziale relegando i drammi personali in una gabbia fatta di dialoghi asciutti, mezze parole (c'è molto di non-detto nelle singole storie di vita), suggestioni appena accennate. Va a finire che, a giochi fatti, i personaggi ne escono mal definiti e il tutto perde rapidamente di interesse. Il cinema non è la vita e le storie vanno in qualche modo drammatizzate, colorite, rese interessanti. Figlio di quello stesso minimalismo malato e sterile da cui sembra incapace di staccarsi quel poco di cinema di lingua tedesca che si affaccia alle nostre sale, Falling punta tutto su un malinteso realismo emotivo che sconfina sovente nell'indifferenza. Si ha spesso l'impressione di assistere ad eventi lontani e estranei a chiunque, sia a chi li ha concepiti (regista-sceneggiatore) che a chi li sta vivendo sullo schermo. Liberarsi trivialmente dai tabù e dalle costrizioni per cadere in avanti, per lasciarsi andare verso un futuro (come suggeriscono fin troppo esplicitamente gli intermezzi congelati su eventi che accadranno di lì a poco, durante tutto il film) indefinito e senz'anima. A questo si riduce il "Grande Freddo" (impietoso ma anche improprio suggerire un confronto col film di Lawrence Kasdan).

A dominare sono un rigore e una povertà assolutamente spiazzanti, sia dal punto di vista della tecnica di ripresa (fotografia desolantemente fredda e incolore, regia anodina senza uno straccio di idea al di là dell'espediente di cui sopra) che da quello della scrittura (dialoghi iperrealistici che imitano il parlato privando l'ignaro spettatore di molti dettagli che se non altro completerebbero la storia già scarna a cui sta assistendi), rigore e povertà che amplificano la rarefazione del racconto costruendo un nulla, un vuoto spinto che si vorrebbe in realtà contenitore di chissà che. Uno stile aderente senza dubbio alla materia filmata, dagli esiti altrettanto sciatti e contemporaneamente pretenziosi.